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C’era una volta l’industria automobilistica italiana, quella che produceva sogni in lamiera e acciaio, e non solo Suv per signori annoiati con nostalgia del diesel. Ora resta un’eco di officine svuotate, turni a singhiozzo e dirigenti che parlano di “transizione ecologica” come si parla del meteo, con disinteresse e un ombrello in mano, giusto per salvare la giacca.
Carlos Tavares incontra i sindacati italiani per primi, e già sembra un evento storico, tipo il passaggio della cometa Halley. Poi però si scopre che la “novità” consiste nel produrre ancora meno e assumere giusto quattrocento persone, quasi fossero comparse in una fiction ambientata a Mirafiori. Gli altri, migliaia, restano fermi ai box, sorretti dagli ammortizzatori sociali come stampelle di un corpo industriale in coma farmacologico.
Il “Piano Italia”, presentato al governo e ai sindacati, pare un documento d’archivio: promesse di modelli futuri, auto che forse vedremo quando l’elettrico sarà vintage e l’Italia una stazione di servizio per turisti tedeschi. Di piani industriali, ormai, abbiamo solo quelli inclinati.
Il governo, intanto, osserva compiaciuto. Ogni crisi diventa un pretesto per evocare l’Europa matrigna, i dazi, la concorrenza sleale e altre divinità del pantheon neoliberista. Nessuno che dica la parola proibita: investimenti. Quelli veri, che riempiono le fabbriche e non i talk show.
Gli operai aspettano un accordo che salvi produzione e lavoro. Un gesto d’antiquariato politico, quasi romantico. In un Paese che ha smesso di credere nei motori, nei lavoratori e persino nelle mani sporche di grasso, la richiesta di “ricerca e sviluppo” suona come una bestemmia. Ma forse è proprio quella la scintilla che serve per rimettere in moto la macchina e non farla uscire di strada.