PHOTO
Paola Clemente è morta a 49 anni, nei campi di Andria, sotto il sole e sotto il ricatto. Non cercava gloria, cercava un salario. Tre euro l’ora per piegare la schiena, senza tutele, senza respiro. Ma lo Stato, che si definisce sovrano, ha preferito pagarsi un biglietto in prima fila per lo Squid Game dello sfruttamento. Platea occupata da imprenditori smemorati, istituzioni afone, ispettori evaporati.
A dieci anni dalla sua morte spuntano murales, targhe, poesie. Omaggi dovuti, ma spesso vuoti. Perché ricordare senza agire è solo un modo più elegante di dimenticare. La vicenda di Paola è diventata una ricorrenza, utile a ripulirsi la coscienza. Ma non basta. Il caporalato non si è fermato, ha solo cambiato abito. Ora indossa giacca e cravatta, si presenta come “esternalizzazione”, “flessibilità”, “ottimizzazione”. Firma contratti nei consigli d’amministrazione, parla il linguaggio del profitto meglio degli appaltatori.
La legge 199 del 2016, sulla carta, è una rivoluzione. Appunto: sulla carta. I fondi contro lo sfruttamento agricolo dormono nei cassetti, accanto alle promesse elettorali. Ogni taglio al lavoro ispettivo è un favore al prossimo suv del caporale. I controlli si annunciano in conferenza stampa e si dissolvono nel nulla. La dignità resta una parola da comizio.
Si tende ad associare il dramma dei braccianti ai migranti, ai più vulnerabili, agli invisibili. Ma Paola era italiana, madre, lavoratrice. Il suo caso sfata il luogo comune. Chiunque può scivolare nella trappola del bisogno. È questo il nodo che lega la sua storia a tante altre: lo sfruttamento non guarda il passaporto, guarda il portafoglio.
Dieci anni dopo il sudore scorre ancora. Le catene sono leggere, silenziose, fatte di urgenza e disillusione. E chi dovrebbe spezzarle, continua a non vedere. Forse per non turbare i raccolti. O forse perché, sotto sotto, gli conviene così.