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C’era una volta un cielo d’ottobre, limpido come una bugia appena detta. In un piccolo Paese, dietro un muro più alto delle favole, la mattina si riempì di urla e di terrore. Gli uomini col volto coperto dissero che erano eroi, le vittime si chiamavano solo per nome. Poi arrivarono i politici che cominciarono a contare i morti come fossero voti, e le lacrime come fossero strategie.
Il mondo, che fino a quel giorno dormiva placido nel suo sonno di scroll e indifferenza, di colpo si svegliò. Ma solo a metà. Un occhio aperto per piangere Israele, l’altro chiuso per non vedere Gaza. Si parlava di giustizia, ma odorava di vendetta. Si diceva sicurezza, ma si costruivano cimiteri. I bambini imparavano presto la geografia: qui si nasce col lutto, là con il missile.
Nella Striscia le scuole diventarono tende e i parchi crateri. Le madri chiamavano i figli scomparsi come in una filastrocca spezzata. Ogni bomba prometteva la pace, ma portava solo silenzio. Ogni silenzio pesava come un complice. E in mezzo a tutto, la parola “genocidio” veniva bandita, perché faceva paura, come se nominarla la rendesse vera.
Gli adulti, quelli importanti, si riunirono a tavola per dire che la colpa era del male, ma non si misero d’accordo su chi fosse il cattivo. Intanto il male, senza farsi troppo notare, si serviva un altro bicchiere di sangue. I telegiornali lo chiamavano equilibrio. Le fabbriche d’armi lo chiamavano opportunità. I governi, realismo.
E così, nella favola del mondo che smise di dormire, tutti continuarono a recitare la parte dei buoni. Nessuno vinse, ma ci fu chi fece affari. I bambini però, quelli che ancora riescono a sognare, chiesero una sola cosa: che un giorno, invece dei confini, si disegnassero alberi. E che le bombe, almeno nei racconti, esplodessero solo in petali.