In Italia l’arte del rinvio è patrimonio culturale quanto il barocco o la carbonara. La chiamano “legge delega”, ma sarebbe più onesto battezzarla con il suo vero nome: la scappatoia perfetta. Il Parlamento, dopo mesi di dibattiti e proclami, non partorisce una norma che innalza stipendi, bensì una delega al governo perché, un giorno imprecisato, scriva decreti che forse, chissà, se non piove, introdurranno qualcosa di simile a un salario minimo. È la liturgia del “facciamo finta di fare”, recitata con la serietà di chi sta scoprendo l’acqua calda.

Il colpo di genio sta nello stravolgimento: la proposta originaria, concreta, chiara, si è dissolta in una nube di burocrazia. Nel frattempo, milioni di lavoratori continuano a raccogliere briciole, mentre l’esecutivo e la sua maggioranza si appuntano sul petto la medaglia della responsabilità istituzionale, un ferrovecchio che scintilla solo sotto le luci delle telecamere.

Quattro milioni di salari da fame sono stati inchiodati alla loro condizione con la forza dell’ipocrisia. Il messaggio è chiarissimo: l’austerità è eterna, la dignità del lavoro può attendere. Si spaccia fumo per ossigeno, propaganda per riforma, e si chiama tutto questo “prudenza”. Prudenza di chi non rischia mai il proprio stipendio, ma solo quello degli altri.

C’è una crudeltà sottile in tutto questo teatrino: la politica che dovrebbe restituire respiro a chi lavora sceglie invece di offrire promesse ventilate, parole sospese, decreti in potenza. Nessuna legge solo il gesto, elegante e indecente, di rimandare sempre a domani, come un debitore cronico che non smette di sorridere.

Ed eccoci qui, i poveri restano poveri, i ricchi restano ricchi e il Parlamento si autoincensa per aver consegnato un’assenza travestita da riforma. È la firma del governo Meloni: garantire che il salario minimo resti un privilegio retorico, mentre la miseria continua a fare gli straordinari.