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Ogni volta che Bandecchi apre bocca, la politica muore un po’. Ogni suo post è una fioritura di sputi digitali, dove perfino Gaza da tragedia diventa scenografia, pretesto per l’ennesima esibizione muscolare. Non c’è opinione, non c’è analisi, solo un rutto amplificato dalla cassa di risonanza dei social.
Sindaco per caso, personaggio per vocazione, sembra un’ipotesi di uomo politico scritta da uno sceneggiatore brillo. Confonde il Comune con una curva, l’aula consiliare con il retrobottega di un bar, la tragedia mediorientale con il suo bisogno di like. È l’anti-statista per eccellenza, una caricatura che ha smesso di far ridere da tempo.
Eppure guai a derubricarlo a macchietta. Perché Bandecchi non è un incidente, è un sintomo. È l’Italia che si compiace dell’eccesso, che scambia l’oscenità per verità, la rissa per passione civile. È la politica ridotta a wrestling verbale, dove vince chi picchia più forte, non chi costruisce.
Da nord a sud, la Penisola è ormai disseminata di cloni di cotanto spessore. Amministratori che gridano come ultrà, deputati che twittano come cabarettisti, governanti che si atteggiano a influencer. Tutti convinti che l’insulto sia un genere letterario e l’oscenità un valore democratico. È un carnevale senza Quaresima, dove il costume resta incollato alla pelle sudaticcia.
Il punto però è un altro e più scivoloso. I Bandecchi non ci cadono addosso, li scegliamo, li votiamo, li alimentiamo. Non sono mostri improvvisi, sono specchi. E il riflesso che ci rimandano è più inquietante di qualsiasi loro sparata. Perché se in fondo un po’ li tolleriamo, forse è perché dentro di noi un piccolo Bandecchi già applaude.