Il clamore sul corso di filosofia chiesto dai vertici dell’esercito somiglia a un’opera buffa dove ogni attore entra in scena già convinto di essere protagonista. L’accademia sogna di portare Aristotele in camerata, l’università misura risorse, orari, affanni quotidiani, e scopre che l’ennesimo miracolo logistico non si materializzerà. La politica intanto si fionda sulla vicenda come se l’Alma Mater avesse sabotato la difesa nazionale con un tratto di matita.

Entra il generale Masiello, che riduce tutto a una presunta fobia antimilitarista. Una scelta retorica elegante quanto un carro armato in salotto. Le ragioni tecniche svaniscono, le ipotesi si fanno proclami e il racconto diventa più importante della realtà. Il resto lo fanno gli applausi di chi ama le storie semplici, possibilmente con un colpevole già impacchettato.

Poi arriva la passerella istituzionale. Ministri che brandiscono la Costituzione come un cartellone pubblicitario, dichiarazioni in falsetto sulla libertà accademica violata dagli stessi che provano a stabilire cosa si debba insegnare e a chi. Il tutto in un crescendo di allusioni, sospetti, accuse, con il tempismo di chi lancia bombe di carta per sentirsi stratega.

L’università bolognese tenta il miracolo più difficile: spiegare che la realtà è più noiosa del mito. Che un corso riservato a pochi e traslocato in caserma richiede risorse che nessuno ha, che la sostenibilità didattica è una questione concreta e non una variante dello spirito patriottico. Ma la voce tecnica ha il difetto di suonare come verità, e la verità non è mai glamour.

Resta l’impressione che la vera posta in gioco non sia un modesto corso di laurea, ma il gusto irresistibile di mettere il guinzaglio all’autonomia accademica. Si finge di difendere la cultura mentre la si usa come clava, si invoca la filosofia mentre se ne teme il pensiero. E alla fine l’unico spettacolo offerto al Paese è di chi parla di libertà con il tono di chi pretende solo obbedienza.