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Ci avevano giurato che la Fornero sarebbe stata un incubo del passato, un trauma nazionale da cui svegliarsi con le lacrime asciutte e la pensione in tasca. E invece, eccola lì, rispuntare come un déjà vu con la messa in piega del futuro. Aridatece la Fornero, almeno lei piangeva. Questi ridono mentre alzano l’età pensionabile come fosse il livello di difficoltà di un videogioco.
Il governo che gridava “mai più sacrifici sulle spalle dei lavoratori” ha scoperto il gusto dell’austerità gourmet: meno diritti, più decibel. Hanno sostituito la parola “riforma” con “sostenibilità”, che fa più chic ma sa di taglio. Ci raccontano che l’Italia deve adattarsi alla “realtà demografica”, cioè che dobbiamo invecchiare lavorando, morire producendo, e magari farci seppellire con la tuta aziendale addosso.
Intanto, le giovani generazioni assistono come in un reality infernale. I nonni non mollano il posto, i genitori non riescono a lasciarlo, i figli fanno stage fino alla dentiera. È la staffetta più lenta della storia, dove il testimone è un contratto a termine e la linea del traguardo un miraggio Inps.
Ogni anno il governo annuncia la “flessibilità in uscita”, che ormai suona come “uscita di sicurezza”, peccato sia chiusa per lavori in corso. E mentre i tecnici spiegano che “si vive più a lungo”, il Paese replica con un coro di tosse e schiene rotte.
La verità è che la Fornero, col suo rigore lacrimoso, almeno aveva la decenza della tragedia. Ora altro che pensione, stiamo passando dal diritto al riposo al dovere di resistere, come se l’Italia fosse una catena di montaggio eterna. E in fondo, forse, la riforma perfetta l’hanno trovata: lavorare fino alla resurrezione.