In occasione dell’anniversario della strage di Via D’Amelio, il 19 luglio 1992, in cui perse la vita il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, pubblichiamo la testimonianza di chi quel giorno c'era: Monica Genovese, oggi segretaria regionale della Fp Cgil Sicilia.

Il 19 luglio c’ero, ci sono ancora e così per tutti gli anni a venire. A dire il vero c’era tutta la famiglia, quella domenica di 33 anni fa: oggi purtroppo a mancare è mio padre e in quella casa ormai vive solo la mamma. Ma quel giorno c’eravamo tutti. I miei genitori e le mie sorelle erano tornati dal mare dopo pranzo, inaspettatamente papà non si mise al balcone per leggere il suo giornale – come faceva sempre – e piuttosto preferì guardare il Tour de France prima di riposare, come il resto della famiglia.

Io invece quel giorno rimasi più a lungo a mare. Era una bella giornata estiva, (lo sarebbe stato ancora per poco), il cielo terso, il mare era una favola… Avevo deciso di rientrare a casa un po’ dopo. Arrivai in Via D’Amelio, accompagnata da un amico, a bordo di una Vespa quando mancava un quarto alle cinque, rimasi ancora qualche minuto giù a scambiare quattro chiacchiere.

Ricordo ancora i colori di quella giornata e quel senso di spensieratezza e leggerezza tipica delle estati passate, di quando si era giovani. Pochi minuti ancora, il tempo del saluto, due parole per organizzare un’uscita serale e risalii a casa. Ebbi appena il tempo di rientrare: constatare che il resto della famiglia riposava o leggeva. Appena varcata la soglia della mia stanza, un terribile boato accompagnato da fumo nero e da una spaventosa onda d’urto entrò nell’appartamento e per sempre nelle nostre anime.

Il palazzo tremò, i muri mediani della casa vennero giù e con loro le nostre certezze. In un attimo la casa si riempì di fumo, polvere e macerie. Tutto era stato spazzato via. Poi fu il panico, la sensazione di morire, l’idea che crollasse tutto. Mentre i miei genitori si rialzavano dalle macerie della loro camera da letto, affacciata su Via D’Amelio al terzo piano, con le mie sorelle correvamo nel corridoio. La porta d’ingresso era bloccata: mio padre tentava disperatamente di aprirla, invano. Questa fu tra le sensazioni più brutte e ancora oggi più pesanti da dimenticare. Poi, per fortuna, di lì a poco arrivarono i soccorsi, ci condussero fuori, così come ci trovavamo vestiti, senza poter prendere nulla e attraverso le scale raggiungemmo l’uscita dal palazzo, passando attraverso quel che rimaneva della portineria.

Ma soprattutto – questa è l’immagine più drammatica e indelebile che porta con sé emozioni e sensazioni sconvolgenti – passammo accanto ai poveri corpi trucidati del giudice Borsellino, degli uomini e della donna della scorta, mentre gli elicotteri cominciavano a sorvolare quel cielo di luglio che da terso era diventato plumbeo e un odore forte, di vita spezzata, cominciava a infilarsi nei nostri polmoni e nelle nostre teste. Una folla di curiosi si riversò nella strada mentre Vigili del Fuoco e Forze dell’ordine provavano a fare da cordolo tra i poveri corpi straziati e il resto, tra la vita e la morte.

Furono mesi complicati sotto il profilo organizzativo, senza casa, le due macchine bruciate. Ma furono anche mesi di solidarietà e sostegno in cui noi unimmo tutte le nostre forze per risalire, per riprendere la vita. Perché noi eravamo rimasti vivi. Certe volte mi chiedo come è che ce l’abbiamo fatta: quasi stento a crederci ma ce l’abbiamo fatta, grazie soprattutto ai nostri genitori e alla determinazione a voler rientrare a casa, nonostante tutto.

Così dopo quasi sei mesi, ospiti a casa di una zia che ricordo sempre con grandissimo affetto (situazione che ci consentì di riprendere la nostra vita, il lavoro, lo studio, l’università) siamo rientrati a casa. In quella casa che – accompagnati sempre dalle forze dell’ordine – non avevamo mai abbandonato, spesso si andava lì anche quando non c’era più nulla coi lavori di ristrutturazione in corso. Casa in cui siamo rientrati con grande gioia, con una consapevolezza in più rispetto al valore della vita e all’inutilità e futilità dei beni materiali. Nel mio balcone fu trovato il distintivo di Emanuela Loi.

Di fronte a tutto questo ogni nostro disagio era niente. Furono, dicevo, mesi complicati ma anche di forte impegno civile. Ricordo il movimento dei lenzuoli: l’andare in giro nel quartiere con i teli bianchi per contribuire a far nascere quella coscienza che finora era rimasta sopita, narcotizzata e che soprattutto grazie allo straordinario impegno e lavoro di Rita Borsellino si è improvvisamente risvegliata e moltiplicata, coinvolgendo tutti, soprattutto i giovani e i bambini: coloro che sono il nostro futuro ma soprattutto le gambe sulle quali far camminare le idee di Paolo e Giovanni, di tutti gli agenti delle scorte che sono stati al loro fianco e con loro hanno perso la vita.

Via D’Amelio è un luogo della memoria che richiede rispetto, giustizia e verità. Una memoria che va tramandata, conservata ma allo stesso tempo nutrita attraverso progetti e iniziative che mettano al centro la legalità, la lotta alla mafia e il valore della giustizia. La strage di Via D’Amelio chiede giustizia in un quadro, così come certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”.

Per questo, Via D’Amelio rimane per sempre la mia casa e penso la casa di tutti coloro che ogni giorno s’impegnano a vario titolo per l’affermazione della legalità e della giustizia. Grazie Paolo, grazie Agostino, grazie Claudio, grazie Emanuela, grazie Vincenzo, grazie Walter.

Monica Genovese è segretaria regionale della Fp Cgil Sicilia