Il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. “Tale notizia - recita il rapporto del mese di giugno del prefetto - ha provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono scioperi e azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che bisogna riunire tutte le forze della resistenza per tale occasione”.

La mattina del 30 giugno un lungo corteo si dipana per le vie cittadine. In piazza quel giorno ci sono la Cgil, i portuali, i professori dell’università, gli studenti, i lavoratori dei trasporti e del commercio. Ci sono i vecchi partigiani e tantissimi giovani, padri, madri, nonni e figli, una miscela inaspettata che fa ripensare ogni schema politico. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti “ragazzi dalle magliette a strisce”) si riversano per le strade del capoluogo.

Alla testa della manifestazione gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. La manifestazione procede in maniera tranquilla, ma davanti al tentativo da parte della polizia di sciogliere il corteo e alla minaccia della calata in massa dei fascisti verso Genova esplode la rabbia popolare. I vecchi partigiani, le giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari, trovatisi per la prima volta fianco a fianco in unità d’intenti, non solo non soccombono alla polizia, ma impediscono il Congresso missino, mandando in crisi il governo.

“I giovani di luglio - scriverà Silvio Micheli su Vie Nuove nell’ottobre 1980 - erano i figli degli operai e dei licenziati, operai e licenziati pur essi dell’Ansaldo, della San Giorgio, del Fossati, della Bruzzo, dell’Oto, dell’Ilva di Bolzaneto, della Bagnara, dei cantieri navali, del porto, delle piccole e medie industrie che vivono ancor oggi nell’incubo dei licenziamenti”.

La giornata avrà - classicamente - come conseguenza l’inevitabile accanimento giudiziario contro i manifestanti. Gli arrestati saranno 50, con un’età media di 28 anni. Saranno gli avvocati di Solidarietà Democratica a difendere gli imputati, assumendo anche l’onere del sostentamento delle loro famiglie.

“Esisteva già un’organizzazione che si chiamava Solidarietà Democratica - dirà anni dopo G.B. Lazagna, il vice-capo partigiano ‘Carlo’ - formata nel 1948 per assistere l’ondata dei processi penali a seguito del 14 luglio. (…) Naturalmente operavamo tutti gratuitamente, era nella tradizione risorgimentale e non se ne parlava nemmeno di emettere parcella. Le arringhe di difesa in genere erano fondate su argomenti politici come la salvaguardia dei valori della Costituzione e della libertà personale, sulla legittimità della resistenza - che poi era stato l’argomento della mia tesi di laurea con Terracini - in caso di gravi provocazioni. (…) Noi avevamo una visione politica dei fatti e consideravamo queste reazioni la giusta risposta al neofascismo che si stava riorganizzando”.

Il processo si celebrerà a Roma nel 1962 e si concluderà con la condanna di 41 dei 43 accusati a pene superiori a quattro anni. “Io credo di poter dire, interpretando l’animo degli assenti - dirà nella sua arringa finale Umberto Terracini - che in questi 43 si riconoscono tutti i 100 mila del 30 giugno. Professori, impiegati, studenti, professionisti, i quali rifiutano una distinzione, una divisione che è tutto artificio, nutrita di vecchi pregiudizi, insidiosa e grave di danni per gli imputati e umiliante per coloro verso i quali si pensa esprima invece deferenza e considerazione. Questi 43 rappresentano, così come sono e chi sono, la maturità politica di tutta la popolazione di Genova”.

“A Genova e altrove in prima linea - scriverà Ferruccio Parri - erano apparsi giovani studenti e operai, nei quali il partito, dove c’era, era visibilmente soverchiato da un comune, anche se spesso generico, combattentismo giovanile. In tutte le manifestazioni, prevalentemente pacifiche, tenute in questi giorni in un gran numero di città d’Italia, si son visti assai più giovani che in passato. Sono minoranze forse ancor piccole nelle regioni più povere, dove la maggior incertezza dell’avvenire, oltre alla cappa di piombo di ambienti arretrati, e perciò retrivi, toglie autonomia critica e irreggimenta nel conformismo”.

Conclude il partigiano e senatore a vita: “Ma in tutto il mondo tira una certa aria come se ai giovani gli prudessero le mani: i teddy boys sono un poco come i campioni di scarto di questo immenso esercito senza bandiera. Io sono certo che anche in Italia, almeno in quella che ho visto e conosco, soffia questo vento. Sorgono problemi di grande portata e responsabilità serie. Saper orientare, non deludere le attese, è forse condizione che il vento non si risolva in una ventata. Forse qui si prepara la vittoria per le battaglie di domani. Vincerà chi saprà avere con sé lo spirito dei giovani, o almeno la parte più eletta e consapevole di essi. Ardua conquista di coscienze che, almeno in questi tempi, sembra più difficile nell’ambito dei partiti che fuori di essi”.