Il 17 luglio del 2019 moriva Andrea Camilleri, scrittore, intellettuale di fama internazionale, sceneggiatore e regista, noto al grande pubblico soprattutto per aver creato il personaggio del commissario Salvo Montalbano.

Impegnato politicamente, ma sempre e solo ‘da cittadino’ (“Mi sono sempre rifiutato. La prima volta, quando il Pci mi offrì una candidatura blindata, la seconda quando dei vescovi siciliani, non so perché proprio i vescovi, si misero in mente di chiedere all’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di farmi senatore a vita. Li ho pregati quasi in ginocchio per evitare una cosa simile. La politica è una cosa seria, bisogna dedicarsi davvero e io sapevo che avrebbe portato via troppo tempo alla scrittura”, raccontava lui stesso in una intervista di qualche anno fa), con la sua penna e la sua intelligente ironia lo scrittore ci ha raccontato l’Italia di oggi e di ieri a partire da quella Vigata, che non ha alcun corrispettivo nella realtà ma che finisce per essere più vera e familiare che mai.

Dagli sbarchi dei migranti alla Genova del G81 (1), dal fascismo ai vari romanzi storici meno noti di Montalbano ma non per questo meno interessanti, il maestro (anche se lui non voleva essere chiamato così “Maestro è Sciascia, perché lo era veramente, di professione”) non ha mai smesso di raccontare, dire e scrivere, senza tagli o censure, in forma romanzata il proprio pensiero.

A Berlusconi dedicherà una poesia letta in piazza Navona a una manifestazione dei girotondi: “Ha più scheletri dentro l’armadio lui/ che la cripta dei cappuccini a Palermo/ Ogni tanto di notte, quando passa il tram/ le ossa vibrano leggermente, e a quel suono/ gli si rizzano i capelli sintetici/ Teme che le ante dell’armadio si aprano/ e che torme non di fantasmi ma di giudici in toga/ balzino fuori agitando come nacchere/ tintinnanti manette…”.

Pare che D’Alema gli abbia ispirato il personaggio del diavolo Delamaz, “un bruco coi baffetti che pilotava ‘na varca sia pure fatta di foglie… Dicivano macari che era ‘ntelligenti, ma grevio e scostante…”.

Alla vigilia del referendum voluto da Matteo Renzi diceva che si sarebbe fatto portare in braccio al seggio pur di votare No.

Prodi? “Dovrebbe fare un corso di dizione. Tra una sua parola e l’altra passano due treni accelerati di una volta”. I Cinque stelle? “Non mi interessano. Non ci credo. Mi ricordano l’Uomo Qualunque: Grillo è Guglielmo Giannini con Internet. Nascono dal discredito della politica, ma non hanno retto alla prova dei fatti”.

Salvini?: “Un ignorante con mentalità fascista. Vederlo con il rosario in mano è vomitevole” (“Scrivi Camilleri, scrivi che ti passa…”, sarà la risposta del "capitano"). La Sicilia di Andrea Camilleri è un luogo fatto di persone (“Il bello della Sicilia è la scoperta quotidiana di siciliani sempre diversi”). È una Sicilia di strade sterrate, profumi caratteristici, buon cibo e mare. E’ la Sicilia anche della mafia, raccontata ai lettori - senza mai chiamarla per nome - con coraggio e puntualità.

“Se potessi, vorrei finire la mia carriera seduto in una piazza a raccontare storie e alla fine del mio cunto passare tra il pubblico con la coppola in mano”. Così rispondeva a chi gli chiedeva come mai a 93 anni non si fosse ancora deciso ad andare in pensione, nonostante l’età e la cecità ormai pressoché totale.

Sarebbe bello, Andrea, poterci ritrovare in quella piazza ancora una volta. Di persona personalmente.

(1) Scriveva lo stesso Camilleri in una nota dell’autore al volume Il giro di boa: “Il giro di boa venne scritto sotto impulso di due avvenimenti distanti tra loro, ma che mi colpirono e m’indignarono in modo particolare. Il primo fu il G8 di Genova e il comportamento non certo esemplare di una parte delle Forze dell’ordine in quelle terribili giornate. Mi mise fortemente a disagio anche una curiosa discrasia tra l’informazione ufficiale, quella dei quotidiani e delle TV, e l’informazione ufficiosa, vale a dire le centinaia e centinaia di riprese fatte dagli stessi manifestanti che documentavano una realtà assai diversa da quella alla quale ci volevano convincere. Ma era evidente a tutti lo spazio di libertà d’azione che era stato concesso ai più violenti mentre i manifestanti più pacifici erano stati duramente manganellati. Non c’erano che due spiegazioni possibili: o si trattava d’insipienza, d’incapacità, il che era grave, o si trattava di complicità, il che era gravissimo. La cosa m’impressionò talmente che, prima ancora del romanzo, scrissi un articolo in cui accennavo alla possibilità che si fosse trattato di una sorta di prova generale di un golpe fortunatamente andata a male. E che le successive violenze alla Diaz e a Bolzaneto fossero un’esplosione di rabbia per il fallimento di quella prova. Il secondo avvenimento fu la scoperta che alcuni trafficanti di carne umana avevano sbarcato sulle nostre coste dei bambini per venderli. Il fatto che il mio personaggio, il commissario Montalbano, si sentisse offeso per le poco onorevoli gesta dei suoi colleghi prima alla scuola Diaz («una macelleria messicana», la definì un funzionario di P.S. davanti ai giudici) e poi alla caserma di Bolzaneto, suscitò contrastanti reazioni tra molti miei lettori, la maggior parte dei quali si trovò d’accordo con Montalbano, mentre una minoranza abboccò all’amo delle finte prove create dalla polizia stessa, quali le bombe molotov o il giubbotto di un agente lacerato da una coltellata, per accusare Montalbano di essere diventato poco meno che un eversore. Fu allora che un sindacato di polizia, il Silp, prese una singolare, quanto opportuna, iniziativa. Organizzò un incontro, aperto anche agli altri sindacati, presso il Piccolo Eliseo di Roma, per discutere del mio romanzo, alla mia presenza e alla presenza di Sergio Cofferati, al quale, l’indomani, sarebbe scaduto il mandato di segretario generale della Cgil (“Sono come Montalbano. Ho tanti autori, non uno solo. Decideranno loro”, diceva nell’occasione a proposito del suo futuro politico Sergio Cofferati ndr). Il teatro era gremito all’inverosimile, erano presenti anche agenti e funzionari venuti da tutta Italia e persino da Genova, dalla caserma di Bolzaneto. Si arrivò a due conclusioni assai interessanti. La prima era che la difesa corporativa, disposta persino a negare l’evidenza dei fatti, otteneva sempre il risultato di lasciare le mele marce al loro posto col rischio di fare estendere il marciume rapidamente a tutto il paniere. La seconda era che, indossando una divisa che dava potere, la manutenzione della democrazia all’interno del Corpo diventava un esercizio quotidiano indispensabile”.