Sarà presentato oggi (26 gennaio) a Roma, alle ore 18, all’Auditorium della Discoteca di Stato, il volume di Ediesse “Riconversione: un’utopia concreta”, alla presenza degli autori e con la partecipazione di Susanna Camusso, segretario generale Cgil, Roberto Petrini, giornalista di “Repubblica”, e Alberto Bellini, del Dipartimento ingegneria dell’energia di Bologna

In questi anni abbiamo sentito più volte ripetere che la riduzione del costo dell’energia avrebbe favorito l’economia europea e, in particolare, i paesi – come l’Italia – con una grande presenza di attività manifatturiere e di trasformazione. Oggi, di fronte a un crollo repentino del prezzo del petrolio, con il barile di greggio che in 20 mesi è passato da 115 a 30 dollari, siamo qui a contare le drammatiche conseguenze che tale discesa ha determinato sul versante economico, sociale e ambientale. La spiegazione di questo apparente paradosso ci dice più cose sulla necessità di procedere a una riconversione ecologica e sociale dell’economia di qualsiasi altra, seppur raffinata, analisi economica.

Dando per scontato che tale andamento dipenda, più che dalle previsioni della domanda e dell’offerta di petrolio, dalla volontà di alcuni paesi dell’area Opec, Arabia Saudita in testa, di mettere fuori mercato i propri concorrenti, come le imprese statunitensi del fracking o le industrie estrattive russe o brasiliane, che presentano costi di produzione molto più elevati, è interessante comunque capire cosa succede, in una situazione come quella descritta, a un’economia come la nostra ancora dipendente, e senza alcuna ragione tecnica, dal modello energetico fossile.

Innanzitutto, le conseguenze economiche saranno gravissime: il 2016 dovrebbe essere l’anno del collasso del fracking petrolifero negli Usa – con i suoi effetti domino sulle banche americane che hanno accettato di finanziare le imprese del settore, permettendo loro di includere nelle riserve aziendali anche il greggio derivante da pozzi non ancora perforati – e del forte ridimensionamento dell’economia russa e brasiliana (Bric), con conseguente rallentamento della già debole domanda. Un’economia mondiale, nella quale molte imprese ed economie dipendono strettamente dal petrolio, rappresenta un ricatto permanente, oltre che un pericolo per tutti coloro che vogliono intraprendere la strada della sostenibilità: è per questo che la transizione e lo sganciamento da questo modello è sempre meno rinviabile.

Ma anche le conseguenze sociali, sulla qualità della vita delle persone, di tale crollo rischiano di essere enormi. Potrebbe diventare sempre meno conveniente il trasporto collettivo, ferroviario o navale, ed essere favorito quello privato e su gomma, con effetti negativi sulla salute delle persone e sulla qualità dell’aria. Il passaggio alle fonti energetiche rinnovabili potrebbe essere interrotto definitivamente o posticipato nel tempo. Lo sviluppo delle produzioni agroalimentari locali, che abbattono le distanze di trasporto e i costi a essi associati, potrebbe interrompersi. Le ragioni economiche di un cambio di direzione rischiano quindi di ridursi.

E cosa succederà domani quando, eliminati i concorrenti, i paesi dell’Opec, liberi di rialzare i prezzi, si troveranno ad agire in un mercato ancor più dipendente dal petrolio (nel frattempo divenuto economicamente conveniente), maggiormente oligopolistico e con un forte ritardo negli investimenti necessari alla transizione? Il rischio sarà quello di vivere in un mondo meno sicuro, più instabile, più inquinato, con meno diritti e giustizia, dove il lavoro e la natura verranno considerati solo un costo da ridurre. Il modello energetico fossile e un’economia sempre più insostenibile, che – per essere alimentata – richiede flussi crescenti di energia e materia, rappresentano un problema per l’economia, il lavoro, la salute e per l’intero pianeta.

Non possiamo più rinviare il tema di una riorganizzazione radicale dei sistemi di produzione, consumo e lavoro impostata secondo i principi di giustizia ecologica, sociale ed economica che permetta di rispondere alle domande relative a cosa, come, per chi e a quali condizioni produrre. La direzione è chiara, a suo modo indifferibile e, per larghi tratti, condivisa. L’accordo di Parigi sul clima, che entrerà in vigore nel 2020, afferma senza ombra di dubbio che occorre “proseguire negli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi”, azzerando le emissioni nette e la dipendenza dai combustibili fossili e finanziando paesi e popoli che ne soffrono le conseguenze.

Il pacchetto europeo sull’economia circolare – volto a prevenire la produzione dei rifiuti, a promuovere il riciclo e il riuso, a minimizzare l’uso delle risorse naturali, a favorire l’eco-design – potrebbe creare posti di lavoro sicuri, promuovere le eco-innovazioni. La nuova direttiva sugli appalti e l’adozione obbligatoria dei criteri sociali e ambientali nelle gare pubbliche, prevista dal Collegato ambientale (la legge 221 del 28 dicembre 2015), se realmente attuata su scala nazionale e locale, può contribuire allo sviluppo di beni e servizi a basso impatto ambientale, che rispettino i diritti dei lavoratori e tutelino la dignità del lavoro.

Si tratta di un percorso a due stadi, uno di breve e l’altro di medio-lungo periodo: nel primo, utilizzando una vasta gamma di strumenti oggi a disposizione (fondi, incentivi, fiscalità, appalti, accesso al credito, formazione, cruscotto di indicatori ecc.), occorre orientare tutte le risorse disponibili per favorire la riconversione ecologica e sociale dell’economia; nel secondo, occorre invece ripensare i modelli di produzione e consumo e costruire un modello economico e sociale sostenibile, redistributivo, equo e fondato sui diritti, che permetta di coniugare strettamente la giustizia sociale e ambientale.

La transizione deve investire tutti gli aspetti del ciclo produttivo: dall’approvvigionamento energetico al “cosa produrre”, dai cicli di produzione alla catena di fornitura, dal trasporto alla distanza tra luogo di produzione e consumo, dalle modalità di consumo alle economie di gestione e manutenzione per allungare la durata dei beni. I protagonisti di questo cambiamento non possono essere solo le persone, in virtù della loro capacità di scegliere in modo equo, devono essere le organizzazioni, gli attori collettivi, in primo luogo le istituzioni, che possono ridurre le incertezze, tipiche delle fasi di transizione, aiutando a definire e condividere scenari futuri sostenibili entro i quali rideterminare costi, benefici, opportunità e rischi.

Silvano Falocco è direttore della Fondazione Ecosistemi