I dati li ha diffusi la Fondazione Gimbe, dopo aver elaborato quelli ufficiali forniti dall’Ocse, la spesa media nel Vecchio continente per la sanità pubblica è pari al 7,1% del Pil, in Italia siamo all’6,8. Siamo al 13esimo posto per spesa in rapporto al prodotto interno lordo, ma il confronto con gli altri Paesi a noi più simili è davvero impietoso: in Germania sono al 10,9%, in Francia all’11,8 e in Spagna al 7,8. Ed è bene ricordare che l’Organizzazione mondiale della Sanità ha definito 6,5% del Pil la spesa sanitaria la soglia sotto la quale è a rischio la salute pubblica di un Paese.

Numeri inaccettabili

In realtà, se si osserva la spesa sanitaria pro-capite, le cose, se possibile, vanno ancora peggio. Ci attestiamo al 16esimo posto nella classifica dell’Ocse spendendo ben 873 dollari in meno per ciascun cittadino, a confronto con la spesa media in Europa. “In Italia la spesa sanitaria pubblica pro capite nel 2022 è pari a 3.255 dollari, al di sotto sia della media Ocse (3.899 dollari) con una differenza di 644 dollari, sia della media dei paesi europei (4.128 dollari) con una differenza di 873 dollari”. E se facciamo somme e moltiplicazioni (numero di abitanti e spesa sanitaria per ciascuno di loro) e traduciamo in euro ci accorgiamo che ogni anno da noi si spendono ben 47,6 miliardi in meno della media. E il governo non riesce a stanziare nemmeno i 4 miliardi promessi per adeguarci all’inflazione e all’aumento della spesa in energia.

Una crisi che arriva da lontano

Ciò che appare evidente dallo studio di Gimbe è che mentre gli altri Paesi hanno sostanzialmente mantenuto le risorse per i propri sistemi sanitari, da noi il declino è costante. Secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione, “l’Italia tra i Paesi del G7 è stata sempre ultima per spesa pubblica pro-capite, ma se nel 2008 le differenze con gli altri Paesi erano modeste, con il costante e progressivo definanziamento pubblico degli ultimi 15 anni sono ormai divenute incolmabili. E se per fronteggiare la pandemia tutti i Paesi del G7 hanno aumentato la spesa pubblica pro-capite dal 2019 al 2022, l’Italia è penultima poco sopra il Giappone”.

Cosa succederà?

Prevedere il futuro è cosa assai difficile ma non impossibile. Entro poche settimane il governo dovrà presentare in Europa e al Parlamento la legge di Bilancio per il prossimo anno, e ha già ha fatto sapere di non avere risorse. Non solo, a leggere l’ultimo Documento di economia e finanza presentato a Camera e Senato la scorsa primavera, si sa che Meloni e i suoi ministri hanno deciso di ridurre ulteriormente il finanziamento per la sanità pubblica portandolo, entro il 2026, al 6,2% del Pil. Ma se già quest’anno una Regione come l’Emilia Romagna rischia di chiudere in deficit il bilancio sulla sanità cosa succederà il prossimo anno? Altro che riduzione delle liste di attesa e incrementi economici per gli operatori.

A rischio la tenuta del sistema e la salute degli italiani

“Chiediamo con forza, a partire dalla prossima legge di Bilancio, l’aumento di almeno 5 miliardi l’anno per i prossimi 10 anni per garantire il potenziamento dei necessari servizi di prevenzione, ospedalieri e territoriali al fine di garantire a tutte e tutti il diritto alla salute e frenare il processo di privatizzazione del Ssn, accelerato dalla destra al governo. È necessario superare gli insostenibili tempi di attesa, la rinuncia alle cure, e rilanciare le politiche del personale sanitario che è quello che sta soffrendo da anni”. Lo afferma Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil, riflettendo sui dati diffusi dalla Fondazione Gimbe.

Rete ospedaliera e territorio

Era il 2015 quando fu approvato il decreto del ministro della Salute n. 70 che riduceva i posti letto ospedalieri a 3,7 ogni 1000 abitanti. Contemporaneamente, quello stesso provvedimento prevedeva che al fine di tutelare il diritto alla salute dei cittadini e delle cittadine andava costruita la sanità territoriale. Il Covid ha drammaticamente dimostrato come la riduzione dei posti letto sia stata realizzata eccome, mentre questa seconda gamba del decreto 70 è rimasta pressoché lettera morta. C’è voluta la pandemia e il Pnrr per definire un piano di implementazione delle strutture territoriali definito nel decreto 77 scritto dall’allora ministro Speranza. Ebbene il ministro Fitto, che il Pnrr dovrebbe realizzare, ha invece stabilito il taglio di 414 case di comunità su 1350, 76 centrali operative territoriali su 600, 96 ospedali di comunità su 400 per un totale di ben oltre 2 miliardi di risorse in meno.

Chi difende il Ssn?

Il ministro della Salute continua ad affermare che vuole tutelare e anzi rilanciare la sanità ma non è chiaro affatto come intenda farlo. Nella prossima legge di bilancio ci saranno le risorse necessarie per i rinnovi contrattuali? E per un piano straordinario di assunzioni? E verrà abolito il tetto per la spesa del personale come da tempo chiede la Cgil? E ancora, con la nota di aggiornamento del Def verrà cancellato il definanziamento del Fondo sanitario da qui al 2026? A questo proposito, dice ancora Barbaresi, “al ministro Schillaci chiediamo meno annunci e più risposte concrete e all’altezza delle evidenti necessità se si vuole evitare il collasso del Ssn: aumentare in maniera consistente e stabile il finanziamento della sanità pubblica, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil, per allineare l’Italia entro il 2030 a Paesi europei come Francia e Germania, rispetto ai quali è attualmente impietoso il raffronto”.

La mobilitazione non si ferma

Il tempo è davvero scaduto, la confederazione di Corso di Italia lo sostiene da molto, conclude infatti la segretaria della Cgil: “La necessità di garantire un forte investimento al Servizio sanitario nazionale in termini economici e organizzativi è il primo dei 10 punti indicati come priorità assoluta nella piattaforma della Cgil presentata un anno fa, che ci ha portati alla manifestazione nazionale del 24 giugno scorso e che ci porterà di nuovo in piazza il 7 ottobre prossimo”.