È entrato in vigore lo scorso 7 luglio, è il Decreto ministeriale del 23 maggio 2022 n. 77, quello che – al di là delle definizioni burocratiche – deve dare attuazione ad una parte consistente della missione 6 del Pnrr: la riforma e la riorganizzazione dell’assistenza socio sanitaria territoriale. Il titolo sarebbe un programma convincente, innanzitutto perché finalmente mette insieme l’assistenza sociale con quella sanitaria, da tempo sosteniamo che l’una senza l’altra è monca. Tanto più se con questa riforma si vuole davvero affrontare il lascito della pandemia nei prossimi anni, ridurre l’ospedalizzazione non urgente, gestire la cronicità e la non autosufficienza. Le promesse del titolo verranno realizzate? E come, nel rispetto dell’articolo 32 della Costituzione che afferma la salute come diritto di cittadinanza e quindi l’universalità che deve essere garantita dal pubblico?

Il giudizio della Cgil sul Decreto 77 è articolato. Il provvedimento è composto da quattro articoli e 3 allegati, definisce un nuovo modello per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nell’ambito del servizio sanitario nazionale, gli standard qualitativi, strutturali, tecnologici e quantitativi delle strutture dedicate all’assistenza territoriale e al sistema di prevenzione. O quasi. Entro sei mesi le regioni devono adottare i provvedimenti di programmazione e di riorganizzazione dell’assistenza territoriale e del sistema di prevenzione in base agli standard definiti, è previsto un monitoraggio semestrale per verificarne l’attuazione che servirà ai fini dell’accesso integrale al finanziamento per le singole Regioni.

Il disegno della riforma, così come tratteggiato dal primo Allegato, è condivisibile e positivo. Il suo impianto complessivo è giusto ma restano ancora aperti nodi importanti, a partire dalle risorse e dal personale, senza i quali la riforma rischia di essere un’occasione persa. Se è positivo l’obiettivo di spingere le Regioni ad adottare in modo uniforme il nuovo modello per assicurare i Livelli essenziali dell’assistenza territoriale, indispensabile sia per superare l’attuale frammentazione che per organizzare percorsi di convergenza nelle regioni in difficoltà, la spinta per l’uniformità dei Lea è indebolita in più parti del testo.

Cerchiamo di capire meglio. Il baricentro della riforma dell’assistenza territoriale è rappresento dal Distretto (uno ogni 100 mila abitanti), quale articolazione dell’azienda sanitaria locale, luogo privilegiato di gestione e coordinamento della rete dei servizi sanitari e sociosanitari territoriali. Ma preoccupa il fatto che il Distretto sparisca dalle indicazioni prescrittive dell’allegato 2. Analogamente avviene per l’infermiere di famiglia o comunità. Dunque, una grave carenza non prevedere come prescrittivi alcuni degli elementi fondamentali per la concreta realizzazione della riforma e tra loro funzionali.

Questo è uno dei punti di maggiore criticità del provvedimento. L’allegato 1 “descrive” la riorganizzazione dell’assistenza territoriale in maniera dettagliata e, secondo noi, adeguata alle necessità. Ma l’allegato 2, quello che prescrive alle Regioni quello che “devono” fare, è molto meno puntuale e preciso. Il rischio che vediamo è che i territori, dato corso al minino indispensabile prescritto, si regolino poi come meglio crederanno. Insomma, regione che vai sanità di territorio che trovi.

Le Case di comunità, che dovranno operare sotto la direzione dei distretti, sono nodi centrali della rete dei servizi territoriali sanitari e socio-sanitari; in esse lavoreranno in modo integrato e multidisciplinare equipe di medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, infermieri, assistenti sociali e altri professionisti. Si distinguono in Case di comunità “hub” (una ogni 40-50 mila abitanti) e “spoke” che devono garantire presidio medico e assistenza infermieristica e altri servizi come il punto unico di accesso, il servizio di assistenza domiciliare, servizi diagnostici di base, così come l’integrazione con i servizi sociali, ecc. Il problema è che non tutto ciò che brilla è realmente una stella. Innanzitutto, le case di comunità sono definite come fondamentali strutture pubbliche del Ssn nell’allegato descrittivo, ma questa definizione sparisce in quello prescrittivo. Per noi questa è una scelta alquanto preoccupante. E non basta, in nessuna parte del provvedimento sono indicati gli standard riferiti a tutte le figure componenti l’equipe multiprofessionale.

Ancora, se da un lato è positivo l’obbligo di presenza nella Casa dei medici di medicina generale (che possono comunque operare anche nei loro studi associati per assicurare una maggiore capillarità delle cure primarie), non aver previsto per loro una assunzione diretta dal servizio, tenendo in piedi il regime in convenzione non consente una reale integrazione nell’equipe multidisciplinare, e contemporaneamente fa intravedere il rischio che anche altre figure professionale possano operare in regime di convenzione aprendo surrettiziamente la porta ai privati. Rischio che troviamo anche in altre parti del Decreto.

Ma continuiamo a esaminare il testo. L’ospedale di comunità (uno con 20 posti letto ogni 100 mila abitanti) dovrà svolgere una funzione intermedia tra il domicilio e il ricovero ospedaliero con la finalità di evitare ricoveri ospedalieri impropri e di favorire dimissioni protette. Un ruolo nuovo, come crediamo sia giusto, verrà assegnato all’infermiere di famiglia o comunità è la figura professionale indicata come riferimento che assicura l’assistenza infermieristica ai diversi livelli di complessità. Peccato che non compaia nell’allegato 2. Positiva, poi, è la volontà di dare vita a una équipe mobile distrettuale per la gestione e il supporto della presa in carico di chi versa in condizioni clinico-assistenziali di particolare complessità. Si chiamerà l’Unità di continuità assistenziale (Uca) e sarà composta da un medico e un infermiere ogni 100 mila abitanti. Ovviamente tutto questo sistema ha bisogno di coordinamento: è prevista una Centrale operativa territoriale (Cot) ogni 100 mila abitanti. Infine, l’assistenza domiciliare dovrebbe essere il baricentro dell’assistenza territoriale, peraltro rappresenta il principale investimento del Pnrr. Tuttavia, il Decreto è del tutto lacunoso sugli standard di personale: ciò prefigura la possibilità di affidare il servizio al privato accreditato. Mentre sono previste poi le prescrizioni per la Rete delle cure palliative, prevenzione in ambito sanitario, ambientale e climatico ma mancano vincoli per le regioni per i servizi per la salute dei minori, delle donne, delle coppie e delle famiglie. Come mancano una serie di questioni fondamentali: salute mentale, dipendenze e medicina di genere.

La riforma ha intrapreso il cammino, sono infatti stati sottoscritti tutti i Contratti istituzionali di sviluppo tra il ministero della Salute e le singole Regioni e Province autonome (Cis) per la realizzazione dei primi interventi previsti dalla missione 6 del Pnrr per i quali sono stati assegnati i primi 8 miliardi di euro dei 20 disponibili, entro il 2026 dovranno essere realizzate 1.350 Case di comunità, 400 Ospedali di comunità, 600 Centrali operative territoriali e garantita l’assistenza domiciliare al 10% della popolazione over 65 anni. Rimangono, però, due grosse questioni aperte.

La prima è quella delle risorse che costituisce una forte preoccupazione: ribadiamo con forza che il livello del finanziamento, sia per il Fondo sanitario nazionale che per i diversi fondi sociali, è inadeguato ad assicurare la riorganizzazione e lo sviluppo dell’assistenza sociosanitaria integrata territoriale.  Non solo, uno dei problemi più grandi disvelato dalla pandemia è la grandissima carenza di personale: si sono resi evidenti limiti ed errori nella programmazione della formazione di alcune figure sanitarie fondamentali. È necessario un piano di assunzione di personale non soltanto per dare gambe e braccia alle nuove strutture previste dal Dm 77 ma i professionisti sanitari scarseggiano in larga parte del Paese.

È necessario rendere maggiormente appetibili le professioni sanitarie, rimuovere completamente il tetto di spesa per il personale imposto dalla vigente normativa, consentire un’adeguata definizione dei fabbisogni formativi e dei relativi piani di assunzione compresa la stabilizzazione del personale precario. Infatti, la deroga al tetto di spesa per il personale in relazione ai nuovi standard dell’assistenza territoriale, stabilita con la legge di bilancio 2022 (L. 234/2021), non è finanziata con un corrispondente incremento del Fsn. Inoltre, particolare attenzione deve essere rivolta al decreto che dovrà ripartire tra le Regioni tali autorizzazioni di spesa in deroga ai tetti vigenti, per evitare di penalizzare le regioni che dovessero aver già provveduto ad assicurare standard maggiori con risorse ordinarie del Fsr. Sui fabbisogni di personale il confronto tra Cgil, Cisl, Uil e ministero della Salute finora non ha prodotto risultati apprezzabili.

Il secondo problema è quello del pericolo concreto della privatizzazione di parte sistema. Strisciante, per alcuni versi già in atto e se ne intravede tutto il pericolo. Alcune cose le ho già accennate. Ma ciò che suscita più di una perplessità è che nell’allegato 1 il Distretto, baricentro della futura assistenza territoriale, venga definito come “committente”. Se l’idea è quella che il Distretto non eroga direttamente le prestazioni ma si assicura che altri soggetti (privati profit o non profit che siano) lo facciano, noi non siamo d’accordo. Così come senza l’assunzione stabile dei professionisti sanitari e sociali si favorisce una inaccettabile privatizzazione dell’assistenza, che peraltro è - come dicevo - già in atto.

Il servizio sanitario è e deve restare pubblico e universale, il suo perimetro – come la pandemia avrebbe dovuto insegnare – deve allargarsi e non restringersi.

Cristiano Zagatti, responsabile Politiche della salute della Cgil