Lo dice l'Istat: le vere emergenze del Paese sono lavoro e povertà.  Rossana Dettori, segretaria confederale della Cgil, sembrano due emergenze diverse, in realtà sono due facce della stessa.

Sì, sono due facce della stessa medaglia. Bisogna però tenere presente che ci sono vari tipi di povertà: quella di chi ha perso il lavoro e  quella di chi, pur lavorando, ha salari talmente bassi da non essere in grado di mantenere se stesso e la famiglia in maniera dignitosa. Sono gli uomini e le donne con contratti di poche ore, gli addetti delle aziende che lavorano in appalto, nelle cooperative, eccetera. La condizione di difficoltà economica è direttamente legata alla struttura del mercato del lavoro italiano, o meglio alle storture del nostro mercato. E al tanto lavoro grigio e nero che purtroppo caratterizza il nostro Paese. La pandemia ha aggravato una situazione già grave. Gli strumenti messi in campo per fronteggiare gli effetti economici e sociali del coronavirus non sempre sono bastati, non hanno raggiunto tutti quelli che ne avevano bisogno. Penso alla cassa Covid, per esempio: ha tutelato chi aveva un regolare contratto, non i tanti che quella regolarità se la sognano. Ancora, le migliaia di donne che lavorano in appalto per i servizi di pulizia o mensa, già povere quando lavorano a causa del part-time involontario: nei periodi di assenza di lavoro sono precipitate. Questa è una delle regioni che ci muove nel chiedere con forza al governo una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.

Poi c’è la povertà assoluta, dal 2019 al 2020 aumentata di oltre un punto percentuale.

Sono le persone che hanno bisogno davvero di uscire da una condizione economica e sociale, ma soprattutto sociale, che non permette nemmeno l'inserimento lavorativo. I numeri dell’Istat che hanno fatto “scandalo” in questi giorni sono quelli relativi all’aumento dei poveri assoluti: in un anno di pandemia, dal 2019 al 2021 sono diventati quasi dieci milioni. Negli anni passati avevamo ottenuto dai governi  - quello Gentiloni e poi Conte -  che anche l’Italia si dotasse di strumenti per contrastare la povertà, il Rei prima, il Reddito di cittadinanza poi. Strumenti indispensabili ma da perfezionare, soprattutto il secondo. Emergenze, dicevamo, da affrontare con forza e rapidamente perché la pandemia ha aggravato condizioni già al limite. Tra queste vorrei ricordare che esiste un'emergenza ulteriore, gli ultimi tra gli ultimi: sono le famiglie numerose e stranieri che vivono nostro Paese. Non possiamo continuare a parlare degli stranieri come se fossero altro da noi. Sono persone che lavorano e vivono in Italia o che non lavorano, ma vivono comunque in Italia, e hanno famiglia anch’essi. La loro condizione è ancora più grave perché hanno meno strumenti degli italiani per affrontarla. L'epidemia ha reso evidente ciò che la Cgil dice da anni: i dati Istat confermano le affermazioni che abbiamo fatto già da tanto tempo, questa volta il governo non può semplicemente prendere nota.  Deve mettere in campo politiche, sia per il lavoro sia per trovare le strade per tirare fuori dalla povertà uomini, donne e bambini.

I dati dicono c’è oltre un milione di minori in povertà assoluta e le famiglie monogenitoriali con il capofamiglia donna sono quelle più povere o a maggior rischio povertà. Insomma, esiste un problema di genere e di generazione rispetto alla povertà.

Sì, anche questa è un'affermazione che facciamo da tempo. Da tempo denunciamo la gravità delle condizioni socio-economiche delle donne. Il tasso della occupazione femminile, in Italia, è tra i più bassi d’Europa.  Quando sono sole con figli, la loro situazione si aggrava. Tutto ciò è frutt  da un lato del lavoro povero delle donne: non dobbiamo mai dimenticare che dietro il lavoro in appalto, a part-time involontario a bassissima paga oraria, insomma quando parliamo di lavoro povero quasi sempre riguarda le donne. Dall’altro lato, c’è una condizione di non lavoro nonostante le donne siano più preparate e formate dei coetanei. Quando poi sono genitori single per scelta di vita o perché separate con un figlio a carico, questa condizione ovviamente ricade enormemente sui bambini. E sui bambini ricade sotto diversi aspetti: da una parte quello dell'esclusione, perché sono bambini a cui viene negato tutto, a cominciare dallo studio, non è un caso che il tasso di abbandono scolastico in alcuni settori sia altissimo. Ma è anche esclusione sociale, ciò da quelle attività di socializzazione indispensabile a una crescita psicofisica adeguata. Sono bimbi a cui è negato anche il pasto che potrebbe essere l’unico completo, perché le mamme non sono in grado di versare il contributo per la mensa scolastica. Questa povertà infantile pesa enormemente oggi, nega il futuro a questi bambini.

Allora parliamo degli strumenti. Il Reddito di cittadinanza e soprattutto il Reddito di emergenza sono stati fondamentali almeno per arginare la povertà economica, aggravata dalla pandemia.

Certo, sono stati importanti ma occorre ripensarli. Innanzitutto come, come avevamo evidenziato quando venne istituito il Reddito di cittadinanza, aver voluto mettere in un unico provvedimento gli strumenti di contrasto alla povertà e quelli delle politiche attive del lavoro è stato un errore. Non solo paletti e vincoli del RdC sono troppo rigidi,ma andrebbero modificati utilizzando quelli previsti dal Rem. Poi, abbiamo salutato positivamente l’assegno unico per i figli, dal 1° luglio entrerà in vigore quello ponte in attesa dei decreti attuativi che lo renderanno operativo per tutti. Due osservazioni. Prima di tutto va resa sempre più cogente l’universalità dello strumento. E poi, per quanti lo riceveranno sulla carta del Reddito di cittadinanza, cioé i più poveri, non è possibile rimanga il vincolo del prelievo massimo di 100 euro al mese complessivo. L’assegno dovrebbe aggirarsi attorno ai 160 euro e andrà a sommarsi al reddito di cittadinanza. Che senso ha prelevare una cifra così bassa?

Per il futuro quali strumenti mettere in campo?

Occorre distinguere. Bisogna rendere più universale la parte del Reddito di cittadinanza come strumento di contrasto alla povertà, riducendo paletti e vincoli, a cominciare da quelli alzati nei confronti dei migranti. Poi sarebbe opportuno tornare allo spirito del Rei occorre la presa in carico delle persone, uscire dalla povertà non è solo una questione di sostegno economico e accompagnamento all’uscita dall’esclusione sociale. Servono assistenti sociali, servizi degli enti locali, strutture per l’infanzia. Occorre andare a cercare i nuovi e vecchi poveri, i senza dimora, quelli che sfuggono agli scarsi radar pubblici e che a volte vengono intercettati dalle diverse forme di volontariato che per fortuna abita le nostre città.

A fianco a questo occorre mettere in piedi un sistema di politiche attive del lavoro in grado di dare risposte anche a chi è ai margini. Da questo punto di vista vorrei fare una riflessione. Nei giorni scorsi alcune imprese hanno fatto un gran "baccano" sostenendo di non riuscire a trovare lavoratori e lavoratrici disponibili per impieghi stagionali. Vorrei sapere: quanti di quelli si sono rivolti agli Centri per l’impiego per offrire lavoro? Certo, chi cerca personale da sottopagare senza rispettare contatti e orari nei Centri per l’impiego non ci va.

In una battuta, quanto contenuto nel Pnrr su questo è sufficiente?

No, purtroppo no. Nel Piano non c’è nulla che affronti questi temi e anche su questo l'abbiamo già detto, urlando quasi. Nel Pnrr non si parla di occupazione, di buona occupazione. E abbiamo visto, la povertà si contrasta creando lavoro. Non solo. Nel Piano sono previste risorse per costruire infrastrutture sociali, non sufficienti certo, ma ci sono. Se, però, costruisco gli asili nido – ad esempio – e non prevedo l’assunzione stabile delle operatrici del servizio, le mura rimarranno vuote e i bimbi non potranno essere accolti, le loro mamme non potranno cercare lavoro. Rischiamo nuove cattedrali nel deserto. Infine, vorrei sottolineare che per contrastare davvero la povertà crescente occorre cambiare scelta economica, cambiare modello di sviluppo. Ed è necessario far ripartire l’ascensore sociale da troppo tempo bloccato nel nostro Paese.