Dopo più di tre mesi di notizie di cronaca su quella che è stata definita la “strage silenziosa” nelle Rsa, le residenze sanitarie per gli anziani, il sindacato confederale, quelli di categoria e i sindacati dei pensionati hanno avviato una riflessione su una vera riforma di tutto il sistema dell’assistenza. In discussione non c’è solo la punta dell’iceberg delle notizie di reato commesse nella gestione della pandemia (oggetto di indagini della magistratura). In discussione c’è ormai tutto il modello, che andrebbe prima di tutto studiato per cambiarlo.

“Quella delle Rsa è una realtà estremamente composita, per certi versi sconosciuta e sostanzialmente non indagata. Dietro questa dizione si cela infatti una quantità di strutture delle quali in Italia, ad oggi, non esiste un censimento attendibile, come non del tutto definito con precisione è il numero di persone che in esse vengono ospitate”. Lo afferma Antonella Pezzullo, segretaria nazionale dello Spi Cgil, secondo la quale il  Sars-Cov2 ha illuminato, come un riflettore potente, una zona d’ombra del nostro sistema assistenziale, e lo ha fatto provocando ciò che in un primo tempo è stato definito come “una strage silenziosa”, e poi, con le parole di Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, un vero ”massacro”.

Sempre secondo  Pezzullo, “le migliaia di morti che in questi mesi si sono contati in queste strutture rappresentano un problema etico, e il corso delle indagini giudiziarie deciderà se e dove esse nascondono anche fattispecie penali. Tuttavia oltre e dopo la cronaca, oltre l’indignazione e il cordoglio, sotto i nostri occhi si dispiega una realtà da rivelare, indagare e conoscere e che soprattutto esige un’operazione di verità e un profondo cambiamento. In queste strutture sono ospitate le persone più fragili, quasi sempre non autosufficienti, e comunque con quel tipo di bisogni che l’invecchiamento e il crescere delle patologie croniche determina. Quelle persone per le quali il coronavirus ha mostrato da subito una predilezione, come spesso accade per i rischi legati alla fragilità”. Il sistema delle Rsa va ripensato in modo unitario perché da una parte ci sono le esigenze giuste dei lavoratori che si stanno mobilitando, dall’altra ci sono i diritti degli anziani che vengono ospitati in queste strutture. La Funzione pubblica della Cgil si sta già mobilitando nei vari territori in vista dello sciopero nazionale della sanità privata. Di recente a Torino i sindacati hanno organizzato un presidio per riportare l’attenzione sulle condizioni di lavoro nelle Rsa.

Più in generale sulle cause che hanno determinato la strage di anziani nelle strutture, il segretario nazionale della Funzione Pubblica Cgil, Michele Vannini, ricorda l’iniziale sottovalutazione del problema del contagio, la mancanza di servizi medici (nelle strutture c’è quasi esclusivamente personale socio-sanitario, solo l’11% ha un medico in strutture), l’impossibilità di isolare casi positivi e infine veri e propri errori nella gestione dell’emergenza su cui sta ancora indagando la magistratura. Ma con Michele Vannini invece di ripercorrere e analizzare tutte le notizie di cronaca degli ultimi tre mesi, preferiamo cercare di approfondire le questioni che riguardano una possibili via d’uscita. “È evidente ora (ma per noi lo è stata da subito) la necessità di avviare una riflessione, un ripensamento su tutto il sistema di assistenza a partire dal modello di base perché è vero che è urgente accelerare i tempi della legge nazionale sulla non autosufficienza, ma è anche obbligatorio pensare a come cambiare il sistema attuale delle Residenze assistite che ha dimostrato anche in questa occasione tutti i suoi limiti”.

Detto in parole povere sarebbe auspicabile pensare ad un futuro in cui non ci sarà più bisogno di relegare le persone anziane non autosufficiente in strutture di questo tipo. Ma realisticamente, per uscire dalla pandemia, con un sistema quantomeno più efficiente e sicuro, è necessario avviare da subito i primi interventi. Quali? Secondo Vannini, è necessario rivedere prima di tutto i parametri di accreditamento delle Rsa. L’obiettivo deve essere quello di dare garanzie assolute sulla sicurezza e l’igiene per le persone anziane accolte nelle strutture di assistenza e cura. Oltre alla revisione dei parametri che garantiscono l’accreditamento è ovviamente organizzare un controllo maggiore e una verifica costante sull’applicazione reale (nelle strutture) dei parametri fissati in teoria solo sulla carta al momento della richiesta di accreditamento.

Accanto a questi due elementi basilari è anche necessario cominciare a pensare a possibili interventi del pubblico nel caso in cui i parametri e le condizioni minime stabilite non vengano rispettate dagli enti privati che hanno avuto l’accreditamento per gestire le Residenze assistite. Secondo Vannini si devono mettere in conto anche azioni dirette come quelle attuate in Toscana dove l’azienda sanitaria Toscana Centro è subentrata in surroga degli enti privati gestori. Una sorta di “commissariamento” della sanità pubblica rispetto ai limiti e alle carenze della sanità privata. La richiesta di un cambiamento è emersa con forza a Torino nel presidio di Piazza Castello.

Sempre secondo Michele Vannini, è arrivato il momento di riflettere sul senso di quelle strutture. Il dramma del coronavirus ci deve far ripensare tutto il modello organizzativo delle strutture, ma anche la qualità della vita che vogliamo garantire ai nostri anziani e in fondo anche a noi stessi quando saremo noi ad averne bisogno. Prima di tutto è necessario ripensare i parametri dimensionali: non è possibile avere mega strutture come quelle che abbiamo visto fallire (dal punto di vista sanitario) in Lombardia. Ci vogliono strutture più piccole, ma pronte a rispondere dal punto di vista sanitario, non micro-ospedali, ma neppure alberghi senza assistenza medica. Accanto a questo è necessaria una nuova rivalutazione del servizio sanitario radicato nel territorio. In questi anni, per le scelte che sono state fatte, abbiamo infatti assist rivo a un vero disastro l’assenza della medicina territoriale che è stata praticamente smontata.

È necessario ripristinare strutture in grado di intervenire anche in emergenza. L’altra strada da percorrere è quella del sostegno all’assistenza famigliare (che si realizzerebbe con la legge sulla non autosufficienza). Ma ci sono casi in cui non si tratta di una scelta. Ci sono famiglie che non sono materialmente in grado di assistere in casa i propri anziani malati (magari perché i figli lavorano e vivono in città diverse da quelle dalla famiglia d’origine). Quindi accanto alla “riforma” delle Rsa sarebbe anche utile cominciare ad estendere i primi esperimenti di co-housing. Quando ci sono anziani che non hanno ancora problemi di non autosufficienza, ma magari hanno difficoltà nel fare la spesa o hanno la necessità di un sostegno sanitario minimo (il controllo della pressione o le medicine da prendere), potrebbero provare a convivere con altri anziani o con altre persone. Sono le esperienze appunto di co-housing molto diffuse all’estero e che stanno facendo i primi passi anche da noi. A Bologna, per esempio, sono state le cooperative edili a lanciare i primi esperimenti. Si potrebbero studiare per verificarne un possibile allargamento anche in altre regioni.

Sulla urgenza di riprendere subito la battaglia per l’introduzione anche in Italia di una legge nazionale sulla non autosufficienza insiste lo Spi che propone anche un ripensamento generale sulle strutture che ospitano gli anziani.Nel dibattito politico e culturale nazionale cominciano quindi ad emergere verità che finora erano rimaste nell’ombra. Se ne parla molto anche nel grande e variegato mondo del Terzo Settore e dell’impresa sociale. Un giudizio molto critico nei confronti del modello Rsa è stato quello di una persona che di accoglienza e di fragilità si intende bene, don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco. Sentiamo come ha descritto il sistema di accoglienza degli anziani in una intervista al Giornale Radio Sociale.


Ma torniamo ora alle proposte del sindacato dei pensionati della Cgil. “L’esplosione dei contagi nelle Rsa ha rivelato la loro incapacità e tutta la loro inadeguatezza a rispondere ai bisogni di queste persone, circostanza che la pandemia ha tragicamente rivelato e esasperato, ma che esisteva prima e indipendentemente da Covid19”, ci spiega ancora la segretaria nazionale dello Spi, Antonella Pezzullo. “La parte più anziana della popolazione, peraltro in crescita esponenziale, esige un’assunzione di responsabilità da parte delle Istituzioni perché, al pari di altri, è destinataria, in termini costituzionali, del diritto alla salute e a cure adeguate. Per essere credibile questo diritto richiede il ripensamento dei modelli di risposta, che non può essere affidata solo ad una residenzialità spesso poco adeguata e poco professionale”. E così il sindacato dei pensionati della Cgil sta preparando il terreno. “Lo Spi Cgil - annuncia Pezzullo - sta lavorando per definire una proposta che parta dall’analisi quantitativa e qualitativa di ciò che esiste e che si raccoglie confusamente sotto la definizione di “residenze per anziani”.

Ha costruito infatti, con l’aiuto dell’Ires, Morosini e delle proprie organizzazioni territoriali, una banca dati nella quale ha censito più di 8000 strutture, e che implementa costantemente. Una geografia del fenomeno che descrive una realtà multiforme, spesso informale, della quale Stato, Regioni, Comuni sembrano essere colpevolmente inconsapevoli. Sta inoltre approfondendo la conoscenza di tutti i possibili modelli di residenzialità che possono rappresentare una risposta modulata e flessibile a bisogni differenziati. Questo per corredare la nostra richiesta di una legge regionale per la non autosufficienza di proposte che si riconnettano con ciò che riteniamo indifferibile, vale a dire la costruzione di servizi territoriali in grado di rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia e che ha bisogno di risposte flessibili e appropriate. Esse vanno dalla domiciliarità alle varie offerte di residenzialità, attraverso reti territoriali integrate fra risposte sanitarie e sociali, in grado di offrire servizi di qualità e soprattutto un lavoro di qualità, adeguato alla domanda e supportato da tutte le innovazioni tecnologiche disponibili”.