Il settore agroalimentare è tra quelli strategici, però anche i lavoratori e le lavoratrici della filiera hanno diritto alla sicurezza e a preservare la propria salute. Domenica sera la firma di un Dpcm, entrerà in vigore mercoledì 25, che “rallenta i motori del Paese e ferma alcune filiere produttive”. Dal tuo punto di vista questo decreto è soddisfacente?

Assolutamente no. Per tutelare i lavoratori e le lavoratrici che producono per fronteggiare l’emergenza – dai sanitari ai farmaceutici fino agli agroalimentaristi – è necessario che gli altri stiano a casa. Per tutelare se stessi, per diminuire l’affollamento nei trasporti pubblici che chi deve recarsi a lavoro è costretto a utilizzare. Il governo ha ceduto alle pressioni di Confindustria allargando la possibilità di rimanere aperti a settori non necessari all’emergenza. In questo momento è indispensabile tutelare la sicurezza di chi deve stare nei luoghi di lavoro. Lo ripete lasciando a casa chi non è indispensabile si rechi a lavoro e applicando il Protocollo sulla sicurezza varato tra parti sociali e concordato con il governo. E dove il Protocollo non viene applicato si chiude comunque.

Vale anche per il tuo settore?

Certo. Abbiamo chiesto alle grandi industrie di rallentare le produzioni – ovviamente garantendo il rifornimento della grande distribuzione e della vendita al dettaglio, magari diminuendo un po’ i volumi per l’esportazione – in modo da distanziare gli addetti sulle linee, e poter procedere alla sanificazione ciclica degli ambienti, oltre che garantendogli i presìdi di sicurezza individuale. E ribadiamo che dove non si applica il Protocollo sulla sicurezza anche queste produzioni debbono fermarsi. Se stiamo procedendo così in un settore strategico per il Paese, a maggior ragione pensiamo che altre produzioni non così essenziali debbono fermarsi. Penso anche che non possiamo parlare di settori secondo il codice Adeco (la classificazione adottata dall’Istat per definire le attività a livello contributivo, ndr), ma dobbiamo parlare di produzioni che sono indispensabili in una situazione di emergenza. E proprio da questo punto di vista affermo che non tutto l’agroalimentare è strettamente necessario.

E allora come deve continuare la produzione nell’agroalimentare per garantire contemporaneamente l’approvvigionamento dei cittadini e la sicurezza di lavoratori e lavoratrici?

La salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro che rimangono produttivi deve essere garantita a tutti. Questo è l’obiettivo da raggiungere tempestivamente. Se non lo raggiungiamo, le produzioni, siano anche essenziali, devono fermarsi finché le condizioni di salubrità non vengano ripristinate e assicurate. E dove si fermano va chiesta immediatamente la cassa integrazione. Se le aziende non vogliono fermarsi, vanno messe in campo tutte le azioni di denuncia e di lotta possibili arrivando anche allo sciopero. Per noi il Protocollo diventa anche strumento importante per chiedere la modifica del decreto approvato domenica. Consentimi una considerazione. Nei luoghi di lavoro c’è tanta paura e noi dobbiamo tenere conto anche di questo stato d’animo, occorre fare in modo che i timori e le preoccupazioni vengano fugati proprio perché si mette in sicurezza l’ambiente della produzione, magari modificando anche l’organizzazione del lavoro, in alcuni casi riducendo le linee e quindi la produzione anche del 50 per cento. In alcune grandi aziende ci siamo già riusciti. Dobbiamo ottenerlo ovunque, anche nelle medie e piccole imprese.

Riduzione della produzione e scaffali pieni, come si fa?

È assolutamente possibile, perché basta ridurre per il momento le quote destinate all’esportazione. Il problema non è questo. Il problema vero sono quelle aziende, per fortuna poche, con le quali non siamo ancora riusciti a sottoscrivere accordi, che cercano di accaparrarsi quote di mercato dei concorrenti chiedendo di lavorare in straordinario, magari anche il sabato. Questo proprio non va bene. Non è questo il momento della competizione né sulle quote di mercato né sull’applicazione del Protocollo. Non permetteremo a nessuno di comportarsi da avvoltoio, chiediamo a Federalimentari di intervenire con i propri associati, il Protocollo va applicato ovunque e gli accordi vanno fatti salvaguardando lavoro e produzioni altrimenti sarà sciopero. Ovviamente la difficoltà e la resistenza ad applicare aumenta man mano che diminuisce la dimensione dell’azienda. Ma per i lavoratori non fa differenza. La salute deve, ripeto, deve essere tutelata per tutti.

A rifornire l’industria di trasformazione alimentare sono i prodotti della terra, della filiera del latte, della carne, del pesce. In questi settori vi è una duplice questione, non si trova mano d’opera e contemporaneamente i migranti irregolari, che di solito affollano le nostre campagne, sono nascosti nei ghetti e ancor più preda del caporalato...

Questo è il punto vero della questione: nel settore primario, quello appunto della produzione agricola, a parte alcune grandi aziende di eccellenza, siamo al disastro, anche perché Confagricoltura Coldiretti e Cia non sono state invitate dal governo al confronto sul Protocollo. Abbiamo provato noi Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil ha stilare con le controparti agricole un protocollo di settore, ma dopo una settimana di trattativa non siamo riusciti a sottoscrivere nessun accordo. Da questo punto di vista il decreto firmato ieri sera dice parole di chiarezza, all’articolo 3 afferma che il Protocollo sulla sicurezza è esteso a tutti i settori.

Veniamo alla manodopera.

La Cgil, insieme a molte altre associazioni, dall’Arci a Libera, da Oxfam e Cnca a moltissime altre, ha promosso una lettera appello al presidente Mattarella e alle istituzioni affinché si intervenga sulla situazione che si verifica nei ghetti nei quali vi sono migliaia di lavoratori agricoli che vengono utilizzati durante le campagne di raccolta. Sono anni che conduciamo la battaglia contro lo sfruttamento e il caporalato ottenendo anche dei risultati importanti, ma oggi questo fenomeno di sfruttamento e schiavitù non risente affatto del Coronavirus, anzi rischia di aggravarsi. Uomini e donne che sopravvivono ammassati in baraccopoli e tendopoli, furgoni che girano e li trasportano ammassati uno sull’altro. A tutti si chiede di stare a casa, stare distanti e lavarsi frequentemente le mani. Loro non hanno casa, non hanno acqua e certo non possono praticare il distanziamento sociale. Quelle sono bombe sanitarie che devono essere affrontate e risolte subito. Si mettano a disposizione caserme dismesse, alberghi svuotati dal virus – oggi grazie a Cura Italia i prefetti hanno il potere per farlo – e si dia una dimora decente a quanti lavorano nei campi per la nostra sopravvivenza. Inoltre si deve dare immediatamente attuazione al Piano triennale contro il caporalato varato a febbraio, i soldi ci sono e la velocizzazione delle procedure è possibile grazie al Cura Italia. Questa questione non riguarda solo la solidarietà sociale nei confronti dei migranti, ma riguarda anche la tutela delle comunità che sono attorno ai ghetti. Infine, è vero che esiste una difficoltà a trovare mano d’opera, sono i lavoratori della Bulgaria, Romania e di altri Paesi. che arrivano da noi per le campagne di raccolta dei prodotti agricoli e ora non possono venire, le frontiere sono chiuse. Il 20-30 per cento dei migranti africani che risiede nei ghetti non è regolare, nella straordinarietà della situazione che stiamo vivendo, crediamo sia necessario avviare una regolarizzazione di questi lavoratori così da poterli utilizzare alla luce del sole in quelle produzioni che soffrono per la carenza di mano d’opera. Alla luce del sole, senza la schiavitù del caporalato e con l’applicazione del contratto collettivo nazionale di lavoro.

Parliamo del decreto Cura Italia. È una risposta ai problemi dei tuoi settori?

È un buon provvedimento, quanto abbiamo chiesto alle ministre Bellanova e Caltalfo c’è, non solo la proroga dei tempi di presentazione delle domande di disoccupazione agricola, che per i nostri lavoratori è vitale visto che altrimenti, non potendo uscire di casa, sarebbero rimasti senza sostegno al reddito. Ovviamente anche la nostra gode di tutti gli strumenti previsti in generale per l’industria, e quindi anche da questo punto di vista bene. La differenza, positiva anch’essa e importante, si è manifestata soprattutto per due settori della nostra filiera, l’agricoltura e la pesca; per tutti gli addetti di questi comparti sia a tempo indeterminato che stagionali è prevista la cassa integrazione, è la risposta che serviva, soprattutto per la pesca che in via ordinaria non gode di nessun ammortizzatore sociale. Infine abbiamo salutato con piacere il fatto che il governo abbia avuto la sensibilità di venire incontro anche ai lavoratori stagionali agricoli che non erano in forza alla data di uscita del decreto destinando anche a loro il bonus di 600 euro, stiamo parlando di circa 600 mila persone. Ovviamente le nostre sedi e i nostri sindacalisti sono a disposizione di tutti i lavoratori e le lavoratrici per informazioni e pratiche.