Giorgia Meloni ha scelto l’ironia. “Nuovo sciopero generale della Cgil contro il Governo annunciato dal segretario generale Landini. In quale giorno della settimana cadrà il 12 dicembre?”, ha scritto sui social con tanto di faccina pensierosa. Una battuta, certo. Ma dietro ogni battuta c’è sempre una visione del mondo. E quella del potere, quando si sente intoccabile, resta sempre la stessa: chi sciopera disturba, chi protesta perde tempo, chi alza la testa è un ingrato.

Il 12 dicembre cadrà di venerdì, è vero. Un venerdì qualunque in un Paese dove ogni giorno muoiono almeno tre persone sul lavoro. Dove gli stipendi si sciolgono prima di metà mese, i turni si allungano, i contratti scadono, i diritti si consumano. Dove le famiglie fanno i conti con scelte impossibili: la spesa o le bollette, la salute o l’affitto. E mentre la realtà sfianca, chi governa trova il tempo per fare sarcasmo.

Lo sciopero generale della Cgil è tutto fuorché un rito. È una scossa. Il segnale di un limite superato. Un modo civile e collettivo per dire che la misura è piena. Che bonus e slogan non bastano più. Che la distanza tra Palazzo Chigi e la vita reale ha assunto proporzioni imbarazzanti. Chi incrocia le braccia lo fa liberamente. Nessuno lo impone. È una scelta consapevole, un atto personale e collettivo insieme. E comporta un sacrificio reale: chi si ferma perde una giornata di salario. Quel gesto merita rispetto, perché è la forma più limpida di partecipazione democratica, non un privilegio.

Ma Meloni scherza sul calendario, fingendo di ignorare che il giorno dopo, sabato, milioni di persone saranno comunque sul posto di lavoro a fare il loro dovere: medici, infermieri, docenti, commessi, autisti, camerieri, operai, tecnici, idraulici. E l’elenco potrebbe continuare. È il popolo dei turni, delle notti, dei sabati e delle domeniche. Quelli che il “ponte” non lo fa da anni perché il salario si ferma molto prima di scavallare il calendario. E non serve un’emoji per capirlo, basta guardare l’Italia com’è, non quella che appare nei post.

Il 12 dicembre sarà un venerdì, ma anche un termometro del Paese. Misurerà quanta rabbia cova sotto la superficie, quanta distanza separa chi lavora da chi comanda, quanta voglia di riscatto attraversa le piazze. Perché a scioperare non sarà solo la Cgil. Sarà l’Italia del sudore, quella che tiene in piedi ospedali, servizi, fabbriche, scuole e uffici. Un Paese che pretende ascolto, rispetto, futuro. E che, di fronte alle battute di una presidente del consiglio zuzzerellona, risponde con la serietà di chi lavora ogni giorno per davvero.