C’è una preoccupante questione generazionale che riguarda lo smart working. È questo uno degli aspetti più interessanti – e problematici – che emerge dal capitolo sul lavoro da remoto contenuto all’interno dell’Inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e lavoratori promossa dalla Cgil nazionale, coordinata dalla Fondazione Di Vittorio e condotta in collaborazione con le strutture della Confederazione. Un’indagine capillare, coordinata da Daniele Di Nunzio della Fondazione Di Vittorio, e che ha raggiunto 31 mila lavoratrici e lavoratori di tutti i settori pubblici e privati, tutte le dimensioni di impresa, tutte le tipologie contrattuali e anche a chi era senza contratto o disoccupato. All’interno del campione il 21% degli intervistati dichiara di lavorare da casa. Di questi, quasi 6 su 10 lavorano da casa 1 o 2 giorni a settimana, il 19% tre giorni a settimana e il 23,6% quattro giorni o più.

“L’obiettivo della nostra analisi – spiega Francesca della Ratta, ricercatrice Inapp e curatrice insieme a Matteo Rinaldini, sociologo del lavoro e dei processi economici e docente presso l’università di Modena e Reggio, di questa sezione – è restituire l’immagine complessa e articolata del lavoro da remoto, che cambia molto a seconda dei contesti organizzativi. Il sindacalista dovrà dunque muoversi, nella contrattazione, nella maniera meno rigida possibile, cercando di rappresentare le esigenze che emergono in situazioni diverse e che rendono difficile una trattazione omogenea ”.

I giovani no

Mentre era abbastanza intuibile che chi lavora da remoto è mediamente più istruito – si va dal 2,4% di chi non è andato oltre la licenza media al 32,1% di chi ha un’istruzione terziaria – sorprende che questa modalità sia riservata soprattutto ai meno giovani: il 15,9% tra chi ha meno di 34 anni, rispetto al 21% del campione complessivo. 

Un’ipotesi la si può formulare incrociando questo con un altro dato dell’indagine, quello secondo il quale il lavoro da remoto è diffuso soprattutto tra i dipendenti a tempo indeterminato e full-time (24%) rispetto agli atipici (9,9%). “Tanti giovani sono precari, e spesso con contratti brevi – commenta della Ratta – e questo forse spiega la loro scarsa presenza tra i lavoratori in smart working, anche perché non è escluso che possano percepire il lavoro da casa più rischioso per il rinnovo del contratto. 

Un’ipotesi plausibile ma non esaustiva perché, aggiunge la ricercatrice, “anche tra i pochi giovani a tempo indeterminato la diffusione dello smart working è inferiore al resto del campione. E questo pone dunque una questione generazionale su cui occorre riflettere a fondo”. Quello che emerge, anche nel caso dei giovani, è in ogni caso un quadro di polarizzazione. Della Ratta: “Quella tra i giovani più fortunati che possono negoziare di lavorare a distanza, e i meno fortunati, magari precari e con salari più bassi, che hanno anche minore possibilità di accesso al lavoro remoto”. 

Nel capitolo gli intervistati sono classificati secondo quattro attitudini verso lo smart working: i convinti (lavorano da remoto e vogliono continuare a farlo), gli aspiranti (non lavorano da remoto e vorrebbero farlo), i forzati (lavorano da remoto e non vorrebbero o vorrebbero farlo meno), i non interessati (non lavorano da remoto e non vorrebbero farlo). Nelle prime due tipologie si concentrano i lavoratori più giovani, mentre forzati e non interessati si addensano nelle fasce di età più elevate, a conferma che troppi giovani sembrano esclusi da una forma di prestazione che, aggiunge la studiosa, “sarebbe loro più congeniale, avendo essi identità più ‘fluide’ sul lavoro, meno legate cioè ai ‘riti’ della presenza fisica, anche per un livello più elevato di istruzione”.

Solo un terzo

Un dato molto significativo è quello secondo il quale solo un terzo di chi svolge occupazioni teoricamente telelavorabili lavora in smart working. “Nonostante il grande 'esperimento di massa' durante la pandemia che ha dimostrato che le persone quando sono messe nelle condizioni giuste da remoto lavorano anche di più – commenta della Ratta – rimane ancora una forte resistenza da parte delle aziende, che evidentemente non si fidano del tutto”. 

Una forte polarizzazione

Chi lavora da remoto ha una maggiore autonomia sul lavoro (il 64,7% risulta avere media o alta autonomia) rispetto a chi lavora in presenza, tra cui chi risulta avere media o alta autonomia si ferma al 39%. Differenze simili si registrano anche rispetto all’innovazione sui luoghi di lavoro: tra coloro che lavorano da remoto quasi 4 occupati su 10 operano in contesti ad alta innovazione, mentre tra chi non lavora da remoto i contesti più innovativi arrivano al 19%. Ancora: chi lavora da remoto è generalmente più soddisfatto del lavoro rispetto a chi non lavora da remoto, specie in relazione alla conciliazione tra lavoro e vita personale (quasi 80% di molto e abbastanza soddisfatti rispetto a 63,3% di chi non lavora da remoto).

“Si tratta di risultati in linea con quelli di altre indagini – riprende la ricercatrice dell’Inapp – che tuttavia pongono una questione importante che riguarda la polarizzazione tra gli occupati. Chi fa smart working, soprattutto se svolge una professione telelavorabile, sperimenta maggiore qualità del lavoro (autonomia, responsabilizzazione e soddisfazione) e ha al contempo la possibilità di sperimentare maggiore flessibilità. Anche se il sindacato deve tener presente i rischi nel contrattare i carichi, gli algoritmi, i controlli”.

Convinti, aspiranti, forzati e non interessati

Come si legge nel report, “l’atteggiamento verso il lavoro da remoto è naturalmente in stretta relazione con la telelavorabilità della professione: la quota più elevata dei non interessati si incontra infatti proprio tra coloro che hanno un lavoro non telelavorabile (91,1% a fronte del 39,1% dei telelavorabili) mentre i convinti sono sostanzialmente concentrati tra chi fa un lavoro compatibile con il lavoro a distanza (30,1% tra i telelavorabili e 1,1% tra i non telelavorabili)”.

A detta dei ricercatori, i gruppi più interessanti sono gli “aspiranti” e i “forzati”. Emerge chiaramente che tra gli aspiranti che svolgono un lavoro “telelavorabile” (circa 4.700 intervistati) c’è una quota più elevata della media di lavoratori che dichiarano di osservare un ritmo e un carico di lavoro spesso eccessivi e di svolgere mansioni ripetitive e noiose. “Avendo meno soddisfazione dalla propria occupazione - chiosa della Ratta – probabilmente vorrebbero lo smart working per conciliare meglio tempi di vita e di lavoro, per esempio evitando almeno gli spostamenti”.

Sul fronte opposto stanno i “forzati”, una parte assai ridotta del campione (appena 828 quelli che svolgono un lavoro telelavorabile) ma dalle caratteristiche significative che fanno emergere bene le possibili criticità del lavoro da remoto. Infatti, se costoro percepiscono il proprio lavoro come svolto in buona autonomia, non ripetitivo e qualificato, dichiarano come spesso si trovino a lavorare oltre il normale orario di lavoro e di temere che la tecnologia possa incrementare i ritmi di lavoro e quindi peggiorarne la qualità. Non solo, osserva la ricercatrice: “Queste persone pongono con forza il tema della disconnessione, osservano che il loro ritmo di lavoro sia vincolato eccessivamente dalla tecnologia che può portare a un aggravio dei carichi di lavoro”. 

Il compito del sindacato

Tutti temi, questi, di cui il sindacato deve occuparsi nella contrattazione. Con l’avvertenza, conclude della Ratta, che “lo smart working ha più appeal quanto meno lo si organizza in maniera rigida e burocratizzata, altrimenti le persone ne avvertono peso e vincoli eccessivi e preferiscono tornare in presenza. Anche perché finora non è stato risolto il problema del buono pasto e della gestione dei costi di connessione e riscaldamento/raffreddamento, cui magari può scegliere di rinunciare chi riceve in cambio autonomia e soddisfazione ma che per la maggioranza di lavoratori e lavoratrici rimane un problema”.