Sono partite all’alba, lunedì 29 luglio, con treni e pullman, per radunarsi davanti al Ministero dello Sviluppo Economico e accompagnare con canti e tamburi l’incontro tra gli ultimi proprietari de La Perla e le parti sociali. Per vegliare su quei 126 esuberi dichiarati dalla holding, che vanno a colpire proprio il cuore produttivo dell’azienda, il punto prezioso dove sapienza, esperienza e creatività si mescolano per realizzare gli alti manufatti per i quali è conosciuta in tutto il mondo. “Sappiamo fare arte” ci hanno detto le lavoratrici de La Perla, e tutto questo sapere potrebbe andare perduto.

Antonella

Sono un’analista tempi e metodi, da 21 anni a La Perla. Vengo da un istituto di moda sovvenzionato dal vecchio proprietario dell’azienda, Alberto Masotti, e dal Comune di Bologna, quindi avevo già il nome La Perla che mi ronzava nelle orecchie al tempo della scuola: i macchinari erano forniti da loro, a scuola assistevamo alle loro sfilate. Poi, per coincidenza, ho fatto lì uno stage e con il tempo sono stata assunta.
I primi 10 anni di vita lavorativa sono stati un sogno, me ne sono resa conto dopo aver vissuto gli anni successivi, che invece sono stati un incubo. I primi 10 anni sono stati una scuola, giorno dopo giorno, un continuo tramandare lavorazioni ed esperienza.
Insieme al contratto mi hanno fatto firmare il segreto professionale, e dopo ho capito perché: dietro quei prodotti ci sono uno studio, una crezione, un saper fare che rappresentano un vero e proprio tesoro.
Nessuna di noi può mancare, facciamo parte di una catena produttiva perfetta di lavoro straordinario, fatto con amore, un’attitudine che il dottor Masotti ci ha trasmesso quando siamo state assunte. Quando ha iniziato a vendere è stata una tragedia, con il fondo americano è stata la stessa storia: si pensa che i costi possano essere contenuti facendo a meno delle persone, ma non è così. Ogni lettera di licenziamento che arriva è una famiglia che passa momenti bui, devi guardare i tuoi figli in faccia e dirgli "da oggi questo non te lo do".
Ci hanno chiesto di tutto, anche gli anni con Scaglia sono stati tremendi perché lui ha preteso da noi cose assurde, che siamo riusciti comunque a dargli, perché siamo una macchina perfetta. Però purtroppo neanche lui ha fatto i giusti investimenti nell’azienda.
La nuova proprietà non ha chiaro il valore di questa manifattura, dell’arte che hanno acquistato: se il loro obiettivo è distruggerci per prendere il marchio e portarlo altrove, la gente deve sapere che non avrà più La Perla. C’è un’alta tradizione chiusa in quelle mura, è un po’ come se si volesse produrre una Ferrari in un altro paese facendo a meno dei suoi tecnici.
Nei primi 10 anni di lavoro, come dicevo, sono stata nelle mani di un grande imprenditore, che sapeva davvero trasmettere l’amore per questo marchio e ognuna di noi lavora ancora sentendolo proprio. Ci vorrebbe un imprenditore come lui, in grado di metterci il cuore: avrebbe ottimi risultati, perché siamo tutte molto preparate e pronte a far fronte ad ogni novità del mercato, ad ogni esigenza e nuova creazione. Perché sappiamo veramente fare arte.

Maria Lucia

Ho ripreso a lavorare per il Gruppo La Perla da due anni e mezzo. Era stato il mio primo lavoro serio, a 19 anni, ci sono stata per 10 anni. Sono andata via poco prima che il vero titolare dell’azienda, Alberto Masotti - un datore di lavoro vecchio stampo, di quelli che tengono ai dipendenti – la vendesse, sono stata 10 anni nel Gruppo Calzedonia, poi anche lì chiusure e demansionamenti.
Sono tornata a La Perla due anni e mezzo fa, assunta dall’allora proprietario, Silvio Scaglia, che ha usato me ed altre come specchietto per le allodole, per far vedere che l’azienda andava bene in modo da poterla rivendere, come è stato, a questo fondo. Il signor Scaglia, pochi mesi prima di vendere, ha fatto un’assemblea con i dipendenti proprio per smentire le voci di vendita che stavano circolando, ma pochi mesi dopo, senza dir niente a nessuno ha concluso con la Sapinda Holding.
Da quando ci sono loro non ho quasi mai lavorato: io sono modellista e non arriva praticamente lavoro, sono abituata a ritmi sostenuti, facevo anche 10 prototipi al giorno, ma qui non arriva niente, né di modellazione né di prototipia. Si ha la netta impressione che vogliano chiudere baracca e burattini, perché stanno mandando avanti solo capi di continuativo e un’azienda che si prefigge di vendere capi di lusso, a prezzi molto alti, non può riproporre materiale vecchio. Stiamo usando rimanenze di magazzino, pizzi di 20 anni fa.
Portano avanti questa politica e poi ci dichiarano in esubero: siamo nelle mani di un fondo anonimo, non si vede mai una persona – si è fatto vivo soltanto uno di loro, a Natale, per dirci “abbiamo grandi progetti per voi”, e i grandi progetti sono stati questi, 126 esuberi.
È così che festeggiamo i 65 anni di attività dell’azienda.
Io sono sicuramente a rischio, perché sono una delle ultime arrivate, sono ancora giovane, non ho figli e grazie a Renzi ho un contratto che non mi tutela. Tutto è legale perché fanno sempre tutto per bene, sono sempre molto distinti, e noi siamo i fessi che alla fine subiscono queste vicende.
L’unica cosa che mi consola, in questo momento, è che la nostra è una delle poche aziende storiche rimaste in Italia dove c’è ancora compattezza tra i dipendenti: le persone che vede oggi, a Roma, sotto il sole cocente, si sono alzate alle tre e mezzo del mattino per essere qui e io sono venuta soprattutto per sostenere loro, perché ancora ci credono nel mondo del lavoro. Io no, non ci riesco. Ogni volta che cambiamo lavoro, oltre a perdere in professionalità, veniamo degradati: lo stipendio, nonostante un curriculum di 20 anni e la capacità di svolgere mansioni diverse, ogni volta diminuisce. A forza di cambiar lavoro arriverò un giorno a prendere come stipendio quello che mi dava mia nonna da piccola, per andare a comprare il gelato.

Angelica

Ho lavorato a La Perla 15 anni, mi sono licenziata nel 2010 e sono andata a lavorare in un’altra azienda, che poi è fallita e tornata operativa, riprendendomi a lavorare. Ma alla fine del 2016 mi hanno richiamato da La Perla, tramite un’agenzia, perché stavano incrementando il personale. Mi conoscevano, sapevano come lavoravo, ed è così che sono rientrata.
Sembrava che le cose andassero benissimo e che con Scaglia l’azienda fosse ripartita alla grande. Ma ho un po’ di esperienza, e quando sono rientrata ho avuto subito la sensazione che si trattasse di un luccichio dorato senza sostanza: riassunzioni, regali per Natale, ore e ore di straordinario e allo stesso tempo figurini consegnati in ritardo, cose rifatte senza motivo, riprese per delle sciocchezze, c’era qualcosa di stonato.
Alle sfilate in Asia, nel Natale del 2017, servivano ai clienti piatti con champagne, caviale e polvere d’oro, e nel gennaio del 2018 è arrivata la voce che non avevano più soldi per pagare i dipendenti e che stavano cercando un acquirente. Così è arrivata la Sapinda Holding, ma da quando ci sono loro non c’è mai stata una vera partenza, nessun rinnovamento, cambiamento, spostamento, nessuna energia, il lavoro è sempre stato scarso, arriva a spizzichi e bocconi.
I sindacati hanno continuato a chiedere chiarimenti, a chiedere un piano industriale, che non è stato ancora consegnato: al suo posto sono arrivati i 126 esuberi. Non so se sono tra loro, e anche in quel caso voglio essere ottimista, la mia professionalità fino ad ora è stata richiesta, però ho 50 anni e comincio a essere un po’ stanca.
Devo dire poi che tornando a La Perla ho ritrovato la mia famiglia, la collega che lavora al tavolo di fianco a me era nella mia classe alle scuole superiori, il lavoro mi piace, realizziamo prodotti che danno soddisfazione. Vorrei continuare a lavorare lì.

Lara

Lavoro a La Perla dal 1987, ho visto tutta la trasformazione, ho vissuto tutte le lotte che abbiamo fatto, ma questa è la più importante. Non riesco ancora a capire come siamo riusciti ad arrivare a questo punto, non hanno un piano industriale e senza non si va da nessuna parte.
Hanno deciso che ci sono 126 esuberi, e le figure che hanno deciso essere di troppo sono praticamente il polmone de La Perla, il cuore della produzione, tutto quello che è sviluppo, creatività: facendone a meno l’azienda non potrà che andare a morire.
Dopo 30 anni in cui abbiamo fatto di tutto, abbiamo creato tante cose bellissime, ci siamo trovate a raschiare tutto quello che si poteva raschiare: con la vendita a Sapinda sono arrivati i fondi, ma la Holding li ha investiti per comprare un’altra azienda invece di destinarli al rilancio de La Perla.
Per noi che abbiamo lavorato tanti anni in questa azienda – alcune lavoratrici ci sono da più tempo di me - La Perla di Bologna era un’istituzione, con la signora Ada Masotti, e poi suo figlio. In questo modo, adesso, stanno smantellando mezza Bologna, perché tutte le lavoratrici sono di Bologna. È come toglierci l’ossigeno: chi ha il mutuo da pagare, chi figli ancora piccoli, chi è monoreddito. Noi abbiamo una grande esperienza, ma una volta uscite da lì è difficile trovare un’altra azienda che abbia voglia di valorizzarla. E pensare che se si impegnassero un po’ di più potrebbero risollevare La Perla. La Perla, la nostra mamma.

Alessandra

Sono entrata a La Perla 31 anni fa, con il primo corso per macchiniste, poi mi sono licenziata perché volevo concludere gli studi e sono rientrata come modellista, ma ho fatto di tutto, adesso sono ai ricami. Hanno comprato due mesi fa una macchina nuova e ora siamo ridotti così, non capiamo cosa sta succedendo.
Io ci credevo talmente tanto a La Perla che due anni fa ho comprato casa e ho fatto un mutuo ventennale. Ho due figli, e uno deve ancora studiare, non so che futuro spetterà a questi ragazzi, e anche a noi, perché ci tolgono la dignità insieme al lavoro, devono capire che il lavoro è la cosa più importante dopo la salute. E poi, a 53 anni cosa vado a fare? I ricami ci sono adesso? Le modelliste, i laboratori artigianali? L’Emilia Romagna era fondata sull’artigianato, ma adesso non esiste più niente. Mio marito è un artigiano, ma fatica ad andare avanti.
Queste persone non sono interessate al prodotto: se lo fossero noi saremmo importanti, perché facciamo un prodotto di qualità, è nostro il know-how dell’azienda, come fanno a smantellarci in questo modo? All’improvviso 126 esuberi, ed è solo l’inizio. Sono demoralizzata e preoccupata.
Senza questo lavoro a Bologna non c’è futuro per noi, cosa andiamo a fare? Altre aziende del settore stanno chiudendo. Io ci ho creduto, fino a un mese fa. Fino all’inizio di maggio facevo i turni fino a mezzanotte del sabato, per me dovevamo farcela, ma non ci danno la possibilità di farcela. È tutto fermo.

Monica

Sono a La Perla da 30 anni. Ne ho 51 e se esco da qui alla mia età non mi prende nessuno, poi a Bologna stanno chiudendo anche le aziende di fianco a noi, non ci sono tante possibilità.
Ma è una politica generale, se lo Stato non si mette di impegno a fare qualcosa non so dove andremo a finire, stanno chiudendo tutti.
Da noi non c’è la volontà di fare le cose a modo. Negli ultimi mesi abbiamo utilizzato materiali vecchi che avevamo, non c’erano idee nuove. E poi, dalla sera alla mattina, decidono di colpire il campionario, dove nasce il prodotto, viene studiato, realizzato, fatto crescere: la culla della creatività. Capisci così che da lì, piano piano, crollerà tutto il resto, che è una speculazione e basta.
E poi, caso strano, l’altro giorno è arrivato il nuovo ciclo di lavorazione, che escude una marea di uffici: è chiaro che non hanno intenzione di andare avanti.
Quella di oggi è l’ultima spiaggia. Mi dispiace che in questi anni certe professionalità, certe mani d’oro, sono andate un po’ perse, la loro esperienza preziosa non è stata trasmessa ad altri: tutto il nostro sapere va perso, non si riavrà più.
Parlano tanto della disoccupazione giovanile, ma non abbiamo visto arrivare neanche una persona giovane in questi ultimi tempi. Quando sono entrata in azienda ho avuto per 15 mesi il contratto di formazione lavoro, mi hanno affiancato a una signora che mi ha insegnato il mestiere, e piano piano c’è stato il cambio generazionale.
Anche da questo si vede che non c’è la voglia di fare qualcosa per far rinascere l’azienda. Di formazione ne avremmo da vendere. È una cosa davvero triste.