Tre appuntamenti, tutti molti rilevanti. Per l’ex Ilva la settimana che si apre è di grande importanza. Lo è soprattutto per l’impianto di Taranto, su cui saranno assunte decisioni che ne segneranno il futuro. Un’acciaieria che era la più grande d’Europa, e che ora ha in funzione un solo altoforno, è al minimo produttivo (quest’anno appena 1,5 milioni di tonnellate di acciaio) e con un terzo del personale in cassa integrazione straordinaria.

Il calendario degli incontri

Il primo vertice è previsto per oggi (lunedì 14 luglio) a Roma, alle ore 18 presso il ministero delle Imprese, con la partecipazione di sindacati nazionali e di categoria, Regione Puglia, enti locali di Taranto e tutti gli attori coinvolti nella definizione dell’Accordo di programma interistituzionale per la decarbonizzazione dello stabilimento pugliese.

Il secondo vertice è per martedì 15 luglio, alle ore 10.30 sempre al ministero delle Imprese, con la partecipazione delle amministrazioni regionali e locali della Puglia per definire in dettaglio (e nelle intenzioni del ministro Urso arrivare già alla firma) l’Accordo di programma interistituzionale su Taranto.

Il terzo incontro è in programma per giovedì 17 al ministero dell’Ambiente, dove si svolgerà la Conferenza dei servizi chiamata ad approvare la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), ossia la “licenza” necessaria affinché l’ex Ilva possa produrre fino a sei milioni di tonnellate di acciaio l’anno con gli attuali tre altiforni, in attesa dei tre nuovi forni elettrici.

Le ipotesi per Taranto

Il tema centrale, in questo momento, è l’Accordo di programma per la decarbonizzazione dell’acciaieria di Taranto. Il governo ha proposto due ipotesi. Partendo da una produzione annua di sei milioni di tonnellate, la prima ipotesi prevede in otto anni (quindi con una sensibile riduzione rispetto all’iniziale conclusione nel 2039) la messa in opera di tre forni elettrici, tre impianti per realizzare il preridotto (Direct reduced iron, Dri, ossia il materiale di carica dei forni elettrici) e una nave di rigassificazione al largo che alimenti entrambi (si stima che servano circa cinque miliardi di metri cubi di gas l’anno). Un altro forno elettrico, con impianto di preridotto collegato, sarebbe costruito a Genova per ulteriori due milioni di tonnellate, portando dunque la produzione totale a otto milioni di tonnellate.

La seconda ipotesi, articolata su un periodo di sette anni e sempre fondata su una produzione di sei milioni di tonnellate, prevede a Taranto solo i tre forni elettrici (alimentati anche con un contratto di servizio da parte della società Dri Italia), mentre l’impianto di preridotto potrebbe essere costruito a Gioia Tauro e alimentato dal rigassificatore a terra già previsto in quell’area. Il preridotto sarebbe poi trasferito a Taranto. Questa seconda ipotesi, che vedrebbe lo sviluppo dello stabilimento pugliese ridimensionato e la stima di circa 700 posti di lavoro persi, deriva da una diversità di vedute tra i diversi attori in campo, in particolare sulla questione della nave di rigassificazione.

Cgil-Fiom Taranto: “Sgomberare il campo da demagogie”

“Non è vero che salute, ambiente e lavoro siano elementi interscambiabili. E non esistono soluzioni semplici per una vertenza complessa come quella dell’ex Ilva”. A dirlo sono i segretari generali Giovanni D’Arcangelo (Cgil) e Francesco Brigati (Fiom) di Taranto, lanciando un appello a “sgomberare il campo da approssimazioni e demagogia e a restare concentrati sui migliori risultati possibili per ambiente, occupazione e futuro produttivo”.

Il sindacato critica l’atteggiamento del governo: “Il divide et impera e il silenzio sulle implicazioni ambientali e sanitarie sono il vero problema. La politica torni protagonista, insieme alla scienza”. Per Cgil e Fiom a Taranto “si può produrre acciaio come altrove, senza compromettere nulla. Ma serve realizzare i forni elettrici, salvaguardando tutti i posti di lavoro”.

Nel caso della realizzazione dei tre forni elettrici, il sindacato rileva che “c’è un solo impianto Dri Italia finanziato dal Fondo di coesione e sviluppo, ed è destinato alla filiera della produzione dell’acciaio locale”. Occorre, poi, verificare “l’utilizzo del gas metano mediante le infrastrutture Tap, Tempa Rossa e rete Snam”.

Per Cgil e Fiom i punti chiave sono “il preciso impegno alla salvaguardia di tutti i profili professionali dei lavoratori diretti, di Ilva in amministrazione straordinaria, dell’indotto e degli appalti; il riconoscimento in seno all’Aia dell’indicatore della Valutazione integrata dell’impatto ambientale sanitario; la presenza maggioritaria dello Stato nella gestione diretta legata alla fase attuale e futura fino alla realizzazione del piano di decarbonizzazione del sito produttivo”.

Concludono D’Arcangelo e Brigati: “La vertenza ex Ilva non è solo una crisi industriale, ma una questione che riguarda il futuro dell’intero territorio. Siamo disponibili a una modalità che unisca e non divida il territorio come, purtroppo, è successo quasi sempre in questi ultimi 13 anni”.

La situazione: vendita e prestito

I 200 milioni stanziati dal governo con il decreto-legge del 26 giugno 2025 ‘Misure urgenti di sostegno per i comparti produttivi’ “sono sufficienti fino al momento in cui capiremo se c’è un acquirente”. Così il commissario straordinario di Acciaierie d’Italia Giovanni Fiori, parlando mercoledì 9 luglio alla Commissione Industria del Senato: “Sono funzionali a portare gli impianti in funzionamento per una cessione. Ma non sono sufficienti per arrivare a metà 2026”.

Del medesimo avviso è la Fiom Cgil nazionale. “I 200 milioni di euro, che verranno stanziati a titolo di prestito oneroso da restituirsi in cinque anni, non bastano a rilanciare l’ex Ilva”, ha detto il coordinatore nazionale siderurgia Loris Scarpa, intervenendo in audizione nella medesima Commissione in Senato.

“Siamo di fonte all’ennesimo intervento spot – prosegue – che non potrà garantire le manutenzioni ordinarie e straordinarie degli impianti, la continuità produttiva, né di raggiungere gli obiettivi della decarbonizzazione, della salvaguardia ambientale e della tutela occupazionale”.

Scarpa evidenzia che “da febbraio 2024 a oggi sono stati finanziati dal governo, complessivamente, 1 miliardo 220 milioni, cui si aggiungono questi 200 milioni di euro. Per il rilancio dell’ex Ilva è necessario programmare stanziamenti di almeno un miliardo all’anno. Ma per una vera svolta occorre che l’ex Ilva diventi una società a capitale pubblico o partecipata dallo Stato”.

Secondo la Fiom Cgil, per gestire la fase di transizione “serve un ammortizzatore sociale pluriennale e specifico al fine di tutelare l’occupazione e assicurare salari dignitosi alle lavoratrici e ai lavoratori. La vicenda dell’ex Ilva è una vertenza nazionale ed europea perché riguarda il sito siderurgico più grande d’Europa, pertanto sono necessarie risorse e interventi straordinari per garantire il lavoro, l’ambiente e la salute”.