Quindici morti in dieci mesi. I numeri della Spoon River di Catania 2025 fanno paura e fanno riflettere. Una riflessione che Collettiva ha fatto con il segretario generale della Cgil etnea, Carmelo De Caudo. Quando risponde al cellulare, prima di iniziare l’intervista, parla dell’ultima vittima in città, un grande lavoratore e un compagno. Faceva parte del coordinamento immigrati della Cgil. Era originario del Congo, ma da tempo viveva qui”. 

Segretario, premesso che, come la Cgil sottolinea da sempre, le morti sul lavoro non sono mai frutto di casualità, come si arriva a questo dato a Catania?

Qui da noi ci sono molte piccole imprese, nei cantieri spesso si lavora senza formazione, senza dispositivi di protezione individuale, con ditte in subappalto a cascata. Il lavoro è spesso nero o grigio. È un sistema che genera vulnerabilità e mette a rischio vite. Situazioni per altro molto diffuse in tutta la Sicilia. Per questo certo non si può dire che a Catania le vittime sul lavoro siano frutto di fatalità: sono il risultato di scelte totalmente sbagliate operate da chi risparmia sulla sicurezza, utilizza lavoratori precari, riduce i controlli, smantella i presidi pubblici di vigilanza.

Qual è lo stato della prevenzione?

Al centro Carmelo De Caudo, segretario generale della Cgil Catania, al corteo del 25 ottobre scorso a Roma

Inail e Asp, l’azienda sanitaria provinciale, non hanno personale sufficiente per svolgere i controlli che dovrebbero portare a sanzionale le aziende inadempienti. Come Cgil da tempo chiediamo un rafforzamento degli organi competenti e l’istituzione di un tavolo che non si convochi solo nell’evenienza del dramma, della morte avvenuta, ma che si riunisca secondo scadenze precise. Un tavolo che non sia preposto solo a monitorare, ma che riunisca tutti i soggetti, prefettura, Inail, Asp, parti sociali, e detti linee di indirizzo precise. Che sia permanente, che osservi la realtà, produca dati concreti per tracciare le dimensioni del fenomeno,  coordini contratti, promuova informazione e sensibilizzazione. L’opera di sensibilizzare la società è già adesso portata avanti dall’Asp e anche dal sindacato, attraverso il ruolo dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza, ma non possiamo fermarci a questo. L’attenzione al tema deve diventare un criterio di indirizzo per i bandi pubblici, nessun appalto senza solide garanzie rispetto alla salute e alla sicurezza dei lavoratori può essere attivato.

Se si osserva il fenomeno dalla provincia, si ha la sensazione di poter fare qualcosa o è lo Stato l’unico che può cambiare la situazione?

È tempo che lo Stato, ma anche la Regione Sicilia, riconoscano che questo sistema non funziona affatto. Occorre attivare con urgenza risorse, controlli, normative. Abbiamo pochi ispettori sul territorio, fino a poco tempo fa per tutta la provincia di Catania ce n’erano appena nove, per dare una dimensione della difficoltà. Manca la cultura stessa della sicurezza sul lavoro. Le aziende non investono su questo. Il tema è sempre lì: la ditta in appalto inseguendo il massimo ribasso deve tagliare i costi, la prima voce finisce per essere spesso la sicurezza. Per questo, ripeto, ogni morto sul lavoro non è frutto del caso. Ed è lo Stato che deve intervenire. Noi avevamo messo in campo il quesito referendario per chiamare in causa chi appaltava e quello poteva essere uno strumento che avrebbe incentivato il controllo. 

La battaglia, dicevi, deve essere anche culturale.

La cultura della prevenzione su salute e infortuni deve diventare consapevolezza di ognuno fin da bambini. Occorre partire dalle scuole, spiegarlo anche alle elementari. La sicurezza deve diventare una materia didattica, perché il ragazzo che oggi studia sarà il lavoratore o l’imprenditore di domani. E speriamo che prima o poi la politica ci ascolti, perché oggi chi dovrebbe farlo è sordo.

Leggi anche