Quando un giovane conclude la scuola dell’obbligo e si affaccia per la prima volta sul mercato del lavoro, nella stragrande maggioranza dei casi è digiuno di tutto: delle norme, dei contratti, dei diritti, delle tutele. E così, prima di buttarsi allo sbaraglio nel mare indistinto e spesso opaco di un mondo fatto di annunci e offerte, capita che scopra il sindacato e si rivolga ai servizi e agli sportelli della Cgil disseminati sui territori.

Un pugno nello stomaco

“Se un ragazzo che si approccia alle prime esperienze lavorative mi chiede ‘Com’è il mondo del lavoro?', sento come un pugno nello stomaco – confessa Serena Girotti, del Nidil e del Sol Cgil di Macerata -. Perché penso all’alto numero di Neet che c’è in Italia, alle persone che non studiano e non lavorano e alle statistiche che parlano di rischi di povertà assoluta per i giovani. E poi perché so che è una grande giungla, a cui possiamo rispondere solo dando strumenti ai ragazzi e alle ragazze”.

Ma perché il mondo del lavoro è una giungla? O meglio, che cosa lo rende una giungla? Le offerte che chiedono la bella presenza o d'inviare una foto in costume da bagno a corredo del curriculum? I colloqui in cui i selezionatori non si concentrano sulle competenze del candidato ma fanno domande del tipo “sei sposata?” o “hai intenzione di avere figli?”. Sì, certo, ma non solo. La giungla è data anche dalle innumerevoli tipologie contrattuali esistenti, tutte legittime, tutte regolari, che però autorizzano la precarietà, legalizzano i cosiddetti lavoretti, consentono la creazione di zone grigie.

Contratti a termine

“La dimostrazione arriva dall’aumento esponenziale dei contratti a tempo determinato – spiega Mariagrazia Nicita, responsabile del Sol Cgil nazionale -, sia diretti che in somministrazione, cioè stipulati dall’azienda che ha bisogno di nuove risorse oppure da un’agenzia per il lavoro. Che sono sempre più brevi”.

Basta dare un’occhiata ai dati ufficiali forniti dal ministero del Lavoro nel suo rapporto annuale sulle comunicazioni obbligatorie: nel 2021 su 10,6 milioni di cessazioni di rapporti di lavoro, 6,9 milioni, cioè il 65 per cento, erano costituite da tempi determinati, mentre i tempi indeterminati erano soltanto 2 milioni, pari al 19,6 per cento.

Durata sempre più breve

Sempre 2021 l’80,9 per cento dei contratti cessati ha avuto una durata inferiore a un anno, quasi la metà si è concluso entro 3 mesi, di questi il 31,6 per cento entro 1 mese, l’11,1 per cento è durato appena 1 giorno. Tra il 2020 e il 2021, all’aumento della quota percentuale delle cessazioni dei contratti fino a 30 giorni (più 3 punti) corrisponde una diminuzione del peso di tutti i rapporti di maggiore durata, in particolare quelli tra 30 giorni e 1 anno.

Se poi andiamo a fare un confronto tra le variazioni tendenziali in base al genere, il maggiore coinvolgimento della componente femminile (pari a più 14,4 per cento) rispetto a quella maschile (12,9) caratterizza la quasi totalità delle classi di durata del rapporto di lavoro. Fanno eccezione quelli più lunghi, superiori a un anno, in cui gli uomini (più 15,6 per cento) mostrano un maggiore incremento nei confronti delle donne (più 7,2).

Ore, settimane, mesi

“Si tratta di dati che negli anni sono rimasti piuttosto stabili – dice Andrea Borghesi, segretario generale Nidil Cgil -. E che confermano la persistenza di un fenomeno per cui troppo spesso le persone vengono utilizzate con tipologie contrattuali flessibili e lavorano poco nel corso di una settimana, di un mese, o un anno. Questo crea grandi disagi e disuguaglianze”.

Quindi le ore lavorate complessivamente sono rimaste le stesse, ma sono state distribuite tra un maggior numero lavoratori. Recenti studi dicono infatti che: troppi lavoratori lavorano per troppo poco tempo durante l’anno. Questo spiega l’esplosione dei part time involontari che insieme alla discontinuità ha portato a un abbattimento dei salari. Se non è giungla, questa.

Una miriade di contratti

Un altro fattore che ha abbassato il livello generale del mercato del lavoro è la miriade di tipologie contrattuali esistenti. Oltre a un’infinità di contratti collettivi nazionali, tempi determinati e indeterminati, c’è un’ampia gamma, dalle collaborazioni entro i 5 mila euro ai cococo e cocopro, che dovevano sparire ma ci sono ancora, dalle partite Iva ai collaboratori sportivi. E dal primo gennaio anche un allargamento dell’uso dei voucher.

“A queste forme contrattuali si ricorre dappertutto, nel settore privato come nel pubblico - spiega Nicita -. Medici, infermieri, educatori, così come operai, grafici, baristi, nessun settore e nessuna categoria si salva. Ma attenzione: l’impiego delle più variegate tipologie non è irregolare”.

Tutto regolare

Infatti è la normativa che consente di applicare contratti diversi per la stessa mansione, dare compensi diversi per le medesime attività, attivare rapporti di durata differente a volte anche brevissima e a ripetizione. Questa frantumazione dall’esterno non si percepisce. “È la stessa norma che permette di giocare sulla pelle delle persone, che genera la giungla - aggiunge Valeria Podrini, segretaria generale Nidil e responsabile Sol di Rimini -. Con un sistema così frammentato, il giovane che vuole svolgere una determinata professione o attività, entrare in un’azienda in maniera stabile non ce la fa, perché è sempre a termine, è a scadenza”.  

Salari e ribassi

Proprio a causa di questa frammentazione, in una stessa impresa puoi trovare persone che lavorano gomito a gomito ma che hanno trattamenti contrattuali e salariali completamente diversi, e di conseguenza anche diritti e tutele diversi. La partita Iva accanto al somministrato, il tirocinante accanto al dipendente. Quasi superfluo aggiungere che ogni rapporto ha un suo compenso, con un effetto dumping tra i lavoratori, una concorrenza al ribasso.

“È per questo che i salari in Italia non sono aumentati negli anni, ma sono diminuiti – afferma Borghesi -.  La presenza di tante tipologie contrattuali schiaccia verso il basso i salari. I dati che abbiamo sulla gestione separata dell’Inps ci dicono che c’è una grande sofferenza dal punto di vista retributivo e previdenziale di una parte consistente di lavoratori autonomi. Per questo sosteniamo da anni la necessità di una riduzione drastica delle tipologie contrattuali e l’introduzione dell’equo compenso, per rimettere in pari le condizioni dei lavoratori”.  

Tirocini & Co.

Poi ci sono i contratti che nella forma sono corretti ma nella sostanza non corrispondono alle attività svolte. Un esempio su tutti, il tirocinio extracurriculare, usato e abusato. Il giovane viene assunto con un tirocinio, ma le sue mansioni di formativo non hanno niente. “Mi devono spiegare che formazione fa un commesso che sta da solo in negozio tutto il giorno: impara dal cliente che entra?” chiede Podrini.

“Il fatto è che la qualificazione del rapporto di lavoro è strettamente legata alle modalità nelle quali si svolge l’attività – precisa Borghesi -. E più si allentano i parametri per cui un lavoro può non essere subordinato, più si allarga la possibilità di applicare qualsiasi altra forma. Sta poi al singolo andare dal giudice per ottenere una riqualificazione del rapporto, è il lavoratore che deve dimostrare che il suo lavoro si svolgeva in forma di dipendenza”.

Apprendista per tre anni

Discorso simile vale per l’apprendistato, che potrebbe essere la forma privilegiata d'ingresso nel mondo del lavoro: riservato a giovani di massimo 29 anni, nasce come contratto a tempo indeterminato, fatta salva la clausola del mancato raggiungimento dell’obiettivo formativo, con agevolazioni nella parte fiscale e previdenziale per l’azienda, a patto che investa sul neo assunto.

“Peccato che alla fine dei tre anni, quando il rapporto deve diventare per legge un vero indeterminato – fa notare Podrini -, in molti casi le società lo interrompono per prendere altra forza lavoro, innescando così un ciclico turn over che consente di godere della detassazione e della riduzione dei costi, che fa anche perdere soldi allo Stato”.

Lavoretti in offerta

Anche districarsi nel mare magnum delle offerte di lavoro non è facile. Casi di truffe a parte, difficilmente sono indicati l’inquadramento, il contratto applicato, il compenso. E a volte si specifica addirittura che i bisogni delle persone sono secondari.

“Il refrain in questi mesi è stato che c’è tanto lavoro ma non si trovano i lavoratori. Non si dice mai però per quali professionalità, con quale salario, quale contratto – conclude Nicita -. Con questa storia dei lavoretti si rischia di svuotare di senso le figure professionali e la formazione dei giovani: perché studiare cinque anni per diventare chef se poi quello che trovo è un lavoretto mal pagato e senza diritti?”.

Video a cura di Ivana Marrone