Se volessimo tracciare la distanza esatta tra la politica e i cittadini, l’unità di misura sarebbe il lavoro. Più l’occupazione è precaria e insicura, più il lavoratore è sfruttato e sottopagato, più il solco si allarga. E diventa voragine. Talmente profonda che paradossalmente appare invisibile. Alimentando a sua volta assuefazione, che sfocia in due sentimenti contrapposti: in pericolosa rassegnazione o in drammatica rabbia sociale.

Chi non vede o, peggio, fa finta di non vedere la realtà, è corresponsabile di questa deriva. È colpevole di una rottura, in atto da tempo, tra rappresentazione sociale e rappresentazione politica. Dove il lavoro non è considerato una priorità, un valore. Non è più al centro, ma ai margini di una società che fatica a vivere il presente, figuriamoci a immaginare un futuro.

Bisogna invertire questo trend, riportare la cultura del lavoro all’interno del dibattito pubblico. Ricucire la distanza con il Paese reale. È da questo assunto che nasce “Il lavoro interroga”, un’iniziativa unica nel suo genere con la Cgil a dialogare insieme ai segretari e rappresentanti dei partiti. Un confronto schietto per chiedere conto su questioni concrete, che incidono quotidianamente sulla vita delle persone.

Salari, precarietà, fisco. Già (ri)partire da qui, garantendo stipendi dignitosi, lavoro stabile e tasse progressive, sarebbe il giusto viatico per disinnescare una bomba sociale pronta a esplodere o, estremo opposto, depotenziare un'accettazione supina che equivale a una sconfitta. Il lavoro può rianimare un Paese in affanno, può colmare questa distanza, sempre più siderale, tra il Palazzo e la piazza. Tra chi è stato chiamato per tutelare gli interessi del popolo e lo stesso popolo che non si sente più tutelato. Ed è per questo che la politica deve tornare a rappresentare gli interessi materiali dei lavoratori.

Ricostruire un terreno comune diventa essenziale per dare nuova linfa alla stessa democrazia e agli stessi partiti. Il fatto che meno della metà dei cittadini si siano recati alle urne all’ultimo turno di ballottaggio è la conseguenza tangibile di una disaffezione cronica, perché c’è un mondo sociale, sempre più vasto, rimasto senza voce. Pronto a sfociare in pericolose derive sovraniste e nazionaliste, riportando il nostro Paese a un feudalismo de facto dove vassalli, valvassori e valvassini si piegano al volere del sovrano di turno.

Quello della rappresentanza è un problema che riguarda tutti, nessuno escluso. Anche le forze sociali non sono esenti da colpe, in difficoltà a intercettare alcuni pezzi importanti della società come i giovani e i lavoratori autonomi. Il sindacato confederale sente questa responsabilità e promuove, ogni giorno, una partecipazione di massa alla vita democratica nei luoghi di lavoro e nel Paese, assumendo l’obiettivo di una piena applicazione dei principi e dei valori della nostra Costituzione.

Ma non basta, è necessario uno sforzo collettivo e duraturo. Un dialogo permanente con obiettivi precisi e condivisi. E il lavoro deve diventare il luogo prioritario su cui investire risorse e competenze. Il collante per una società più giusta, dove nessuno resta indietro. Certo, la politica ha il dovere morale di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, ma se agisce in solitaria alimentando disintermediazione e disorientamento, la forbice diventa compasso e la distanza resta incolmabile. Afoni i cittadini, sorde le istituzioni: non possiamo più permettercelo.