E’ di nuovo settembre, quel mese in cui la scuola ricomincia, le città e i luoghi di lavoro, pubblici e privati, si riempiono di persone tornate dalle ferie. Si affollano gli autobus e i treni, riprende il traffico sulle strade. Rispetto a un anno fa tante cose sono cambiate. Tre quarti degli italiani nel frattempo si sono vaccinati: e questa è la novità positiva. Il 1° settembre 2020 i nuovi casi conteggiati erano stati 978 in tutta Italia, e i deceduti 8. Il 1° settembre 2021 i nuovi casi conteggiati di positività al virus in Italia sono stati 6.503 e i morti in più 69. Il peggioramento apparente della situazione è dovuto in larga parte all’incremento dei tamponi, ma mostra che non siamo usciti dalla situazione emergenziale, che infatti è formalmente stata prolungata fino alla fine di quest’anno.

La vera novità è che nel frattempo il ministro della Pubblica Amministrazione è diventato Renato Brunetta, che ha trascorso l’estate a farsi intervistare da tutti i quotidiani per ribadire che il lavoro in presenza dei dipendenti pubblici sarebbe fondamentale per trascinare la ripresa economica. Rispondendo a un question time alla Camera l’8 settembre, ha riproposto le sue tesi imbarazzanti, rinfocolando l’inutile contrapposizione tra lavoratori pubblici e privati, sostenendo che i lavoratori pubblici “smart” non abbiano sostanzialmente fatto nulla di importante, e imputando i problemi del lavoro agile emergenziale a fattori esterni al suo ministero, che avrebbe quindi trovato la soluzione nel riportare i dipendenti pubblici in ufficio. In un articolo a 4 mani con Michele Tiraboschi pubblicato due giorni dopo ha giustificato la soglia del 15% (almeno) di lavoro agile fissata attualmente dalle norme (era stata portata al 60% dalla precedente ministra), perché è il “dato di massimo utilizzo del  lavoro agile registrato in Italia sulla intera popolazione lavorativa nel pieno della  pandemia”, peraltro “in perfetta linea con la media europea”.

Ma Brunetta non considera nei suoi calcoli che il personale sanitario, quello delle forze dell’ordine e scolastico, che rappresentano i due terzi dei dipendenti pubblici, non lavorano e non lavoreranno mai a distanza. Se quindi si fissasse una soglia uguale per tutti gli enti al 15% massimo (come propone il ministro Brunetta), il risultato sarebbe che in smartwork potrà lavorare meno del 5% dei dipendenti pubblici totali: altro che media europea!

Il ministro, invece di proporre percentuali ridicole per legge, dovrebbe pensare a riaprire gli sportelli che dovessero essere ancora chiusi o poco funzionanti, magari assumendo personale (ne manca tantissimo!) e a rendere digitali i servizi che possono esserlo e che ancora oggi non lo sono: i cittadini saranno sicuramente più contenti se riceveranno un certificato via mail o attraverso una app, rispetto a dover fare una chilometrica fila allo sportello.

L’Istituto nazionale di statistica, dove lavoro, grazie allo smart work emergenziale ha permesso al Paese di avere i dati sulla situazione socio-economica italiana nei tempi prestabiliti, aggiungendo anzi informazioni in più o in anticipo rispetto al previsto: proprio i dati utili per fronteggiare la pandemia.  Lo stesso è accaduto in tanti altri enti di ricerca e non solo. Non in tutti. Negli enti dove ci sono laboratori ed è necessaria la presenza fisica per lavorare, in alcuni casi anche nonostante il lockdown del 2020, i ricercatori e le ricercatrici hanno presidiato le sedi e assicurato la continuità del loro lavoro.

Molte amministrazioni hanno investito nello smart work. L’Istat ad esempio ha acquistato hardware e software per rendere il lavoro a distanza efficiente.

Infine tanti lavoratori hanno potuto sperimentare un modo di lavorare che, seppure in condizioni difficili dovute alla situazione generale, concilia meglio il lavoro con la vita personale.

Speriamo che l’autunno non porti una nuova ondata di contagi come è accaduto nel 2020. Nel frattempo sarebbe una buona idea lasciare in pace i dipendenti pubblici che vogliono e possono continuare a lavorare a distanza senza compromettere l’attività, contribuendo così tra l’altro a intasare un po’ meno le strade e i mezzi pubblici, salvaguardando la propria e l’altrui salute. Salute e sicurezza devono rimanere il primo criterio, e i protocolli firmati negli scorsi mesi anche negli enti di ricerca spesso, giustamente, consentono una presenza in sede molto ridotta rispetto al periodo pre-pandemia. Le corse di Brunetta contro il “lavoro smart” rischiano di distruggere il lavoro fatto con grande cura nell’ultimo anno e mezzo anche dal punto di vista sanitario, come anche quello sul fronte della contrattazione e della programmazione.

Sindacati e amministrazioni infatti hanno sottoscritto accordi e protocolli per sopperire alla mancata contrattazione che denuncia Brunetta, ottenendo in molti casi un buon risultato. Quest’anno sono stati approvati molti “Piani organizzativi del lavoro agile” (Pola), programmando una sperimentazione larga del lavoro agile nei prossimi anni. Non si tratta di una soluzione stramba, ma della direzione che ha preso l’organizzazione del lavoro nel terziario (pubblico e privato), in tutto il mondo, con effetti spesso positivi per la produttività oltre che per il benessere delle persone e dell’ambiente.

Nelle prossime settimane e mesi si dovranno definire i nuovi contratti nazionali dei comparti pubblici. Lì, non nei decreti, si dovranno regolare gli aspetti legati al lavoro agile. Perseguendo l’efficienza della pubblica amministrazione e la qualità dei servizi erogati ai cittadini, si devono e si possono ottenere diritti e regole certe senza fare precipitare l’Italia di nuovo in coda, dove si trovava prima della pandemia. Il sindacato è pronto, il ministro apparentemente molto meno.

Lorenzo Cassata è coordinatore Flc Cgil Istat