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Il prossimo 12 dicembre sarà sciopero generale contro una manovra ingiusta e sbagliata e contro il riarmo. Così è stato annunciato al Mandela Forum di Firenze lo scorso 7 novembre all’assemblea alla quale hanno partecipato tantissime delegate e delegati della Cgil provenienti da tutta Italia. Lo sciopero si terrà di venerdì, come ha tenuto a sottolineare la presidente del Consiglio, provando a ironizzare sul fatto che chi vi parteciperà lo farà per allungare il week end.
Un tentativo di derisione verso lavoratrici e lavoratori che scelgono di mobilitarsi contro l’impostazione bellicista assunta dal governo. Con la Manovra, infatti, ancora una volta si andranno a sottrarre ingenti risorse alla collettività, per finanziare l’industria bellica, impoverendo ancora di più il Paese. La presidente Meloni ridicolizza le lavoratrici e i lavoratori esausti, che vedono il traguardo della pensione allontanarsi sempre di più e le riforme promesse disattese, come quella della cancellazione della c.d. legge Fornero.
Ci si prende gioco di lavoratori e pensionati stufi di chi appoggia Trump e Netanyahu e si rende complice del genocidio in Palestina. Le manifestazioni e gli scioperi delle ultime settimane, infatti, hanno tracciato una linea ben definita sulla posizione che l’Italia dovrebbe assumere sul tema. Milioni di persone hanno attraversato le vie della città per manifestare in maniera convinta contro il genocidio in atto a Gaza e per la liberazione del popolo palestinese.
Non perdiamo la memoria
Il 12 dicembre sarà un venerdì, proprio come lo fu il 12 dicembre nel 1969, quando in un grigio pomeriggio milanese la filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana saltò in aria per un ordigno da 7 chili di tritolo, uccidendo in tutto 17 persone e ferendone 88. Una strage neofascista che ha segnato l’inizio della strategia della tensione dell’eversione nera: bombe nelle manifestazioni, nelle piazze, nei treni e nelle stazioni, tutte eseguite dagli eredi del fascio littorio. Una stagione di depistaggi, coperture e alleanze con tanti, troppi colpevoli rimasti impuniti grazie alla complicità di quello Stato che avrebbe dovuto proteggere i cittadini ma che invece aveva nel suo apparato i mandanti di quelle stragi.
Nessuno ha pagato per la bomba di piazza Fontana se non le vittime innocenti nonostante sia stata riconosciuta la matrice neofascista dalle sentenze. Oggi gli eredi nostalgici con la fiamma tricolore non si presentano con la camicia nera, ma con la giacca o il tailleur. Quello della destra post-fascista figlia del Movimento sociale è un fenomeno ormai privo della dimensione sovversiva dei suoi antenati.
Gli orfani del Duce non vogliono sopprimere il parlamentarismo o spargere terrore con le bombe ma, occupando i posti di comando provano ad accentrare il potere e cercano di distruggere la democrazia dall’interno: con i decreti Sicurezza, gli attacchi al diritto di sciopero, i tentativi di repressione del conflitto. Oppure con la gogna mediatica, come ha fatto la Presidente sui social provando a far apparire lo sciopero solo come un capriccio di chi si vuole fare un week end lungo, senza ricordare che chi sciopera rinuncia a una giornata di paga e che sono tanti, troppi quelli che lavorano durante il fine settimana.
La demonizzazione del conflitto da parte dell’esecutivo è stata agevolata da una stagione di equilibrismi politici che ha trasformato la Cisl in un sindacato funzionale al potere, più attento a non disturbare che a difendere i lavoratori. Il suo massimo dirigente, l’ex segretario generale Luigi Sbarra, è stato cooptato lo scorso giugno alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel ruolo di sottosegretario, poco dopo aver lasciato il sindacato di via Po, premiato per la sua fedeltà al governo.
Il salto di qualità ha generato tanto malumore in diversi delegati e delegate cislini, considerata anche la continuità della linea proseguita dalla nuova segretaria, Daniela Fumarola. Un sindacato che ha oramai abbandonato la via del conflitto e dello sciopero come strumento di lotta, prendendo le distanze da tutte le iniziative della Cgil, comprese quelle a favore della pace e per la fine del genocidio in Palestina.
No a rivisitazioni e delegittimazioni
Nella narrazione politica di chi oggi governa, si assiste a un interessante esercizio di rivisitazione storica e identitaria. Da un lato, si tenta di prendere le distanze dalle radici fasciste provando a ricostruirsi un volto pulito. Dall’altro, però, non si compie mai il passo che sarebbe più naturale in una democrazia nata dalla Resistenza: dichiararsi apertamente antifascisti, provando a normalizzare l’idea che la storia sia un terreno neutro, plasmabile, rovesciabile a piacimento.
Come ha affermato alla commemorazione del 45º anniversario della strage di Bologna Paolo Bolognesi, presidente uscente dell’Associazione associazione dei familiari delle vittime, “alla presidente del Consiglio […] nel ricordare il passato da cui proviene come quello da cui provengono gli esecutori delle stragi, vogliamo dire che una cosa è il rispetto per le istituzioni, un’altra cosa è l’accettazione di riscritture interessate della storia, cosa che non siamo in alcun modo disposti a far passare.
Condannare la strage di Bologna senza riconoscerne e condannarne la matrice fascista è come condannare il frutto di una pianta velenosa, continuando ad annaffiarne le radici”. Un po’ come il “non rinnegare, non restaurare” di Augusto De Marsanich, segretario del M.S.I. negli anni 50, riferendosi al ventennio di dittatura fascista. Ed è proprio questo il punto: l’operazione a cui assistiamo oggi è un tentativo di ricostruzione identitaria che mira a cancellare le responsabilità storiche e, contemporaneamente, a delegittimare chi ancora difende la memoria come spazio di consapevolezza civile.
Si cerca di costruire una narrazione che normalizzi il passato, che lo relativizzi e lo renda opinabile, dove la Resistenza non è più la radice della democrazia, ma una “posizione”, un “punto di vista” come un altro. Per questo oggi non basta solo ricordare, è fondamentale scendere in piazza mettendo il conflitto al centro come unico motore del cambiamento. I movimenti di piazza delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire da quelli per la Palestina sono il carburante di questo motore, contro le stragi, il genocidio e la normalizzazione della violenza.
È per questo che lo sciopero del 12 dicembre conta: per un salario dignitoso, per i diritti, per la dignità del lavoro e per la pace. Ma anche per la memoria. Contro tutte le violenze sioniste e fasciste. In divisa militare o in giacca e cravatta. Perché la memoria serve anche per guardare al passato e costruire un futuro migliore.






















