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Il mondo delle ong in Italia rappresenta una realtà ben viva, e operante in numerose zone dell’intero pianeta. Ma come ogni storia, anche quella delle Organizzazioni non governative ha vissuto processi di sviluppo e trasformazione nel corso del tempo a partire dal secondo dopoguerra, quando l’associazionismo inizia ad assumere forme riconoscibili e riconosciute, sino ad arrivare ai nostri giorni, dove la presenza negli scenari di guerra e sofferenza cerca di incidere all’interno di un circuito di informazione internazionale, nel quale le notizie sempre più spesso vengono controllate ed emesse non per raccontare la realtà dei fatti, ma per costruire un sistema di interessi a beneficio di pochi, e a danno di molti. Di questo e altro abbiamo parlato con Fiorenzo Polito, dottore di ricerca in Scienze politiche e Sociologia alla Scuola Normale Superiore, autore del volume Le Ong in Italia. Storia, organizzazione, prospettive (pp.184, euro 20), appena pubblicato da Carocci editore.
Cosa si propone questa ricerca?
Si tratta di un lavoro iniziato prima come cooperante tra Australia e il Pacifico, la cui esperienza, l’esposizione alla quotidianità, la routine, la fatica, ti porta a vedere e conoscere quelle che sono anche le dinamiche disfunzionali di una ong, il rapporto con i finanziatori, i progetti, i referenti, gli uffici. Insomma, per prima cosa ho imparato molto sul campo, attraverso la rete delle ong locali. Dopo questa full immersion, mi sono avvicinato a un primo progetto di cooperazione internazionale, nel rapporto tra migrazione e integrazione in Italia, da cui il Dottorato alla Normale di Pisa. Quel patrimonio vissuto sulla pelle era comunque qualcosa a cui volevo dare valore; e ripartendo da qui, ho cercato di osservare l’angolazione delle ong italiane, studiandone nello specifico studiarne l’evoluzione.
Nella prima parte del libro si ricostruisce per l’appunto la storia delle ong in Italia, a partire dal secondo dopoguerra. Quali sono stati i passaggi più importanti di questo percorso?
Nella ricerca di un taglio storico, oltre quello più prettamente sociologico, ci siamo resi conto che c’era un buco nella narrazione. Ed è stato un esercizio interessante, con parallelismi tra la cooperazione internazionale a livello globale, e come le ong recepivano certi cambiamenti. In ogni caso è stato difficile fare una separazione netta per decenni, gli eventi storici seguono altri percorsi… Diciamo che i ’50-’60 sono caratterizzati dall’evoluzione degli aiuti allo sviluppo, azioni di solidarietà dal basso, mentre nei ’60-’70 c’è stato un processo nelle teorie della modernizzazione di uno sviluppo non solo economico ma anche sociale, in un clima di guerra fredda in cui le prime azioni di solidarietà e volontariato si orientavano in ambito cattolico e nella sinistra politica. Difficile comunque fare delle divisioni nette, vi sono grandi gradazioni.
E poi?
Poi c’è il “decennio perduto” degli anni ’80, per la crisi economica del periodo, e che in Italia coincide con una maggior istituzionalizzazione, forse anche per via dell’avanzare del neoliberismo, un nuovo modo di pensare e gestire economia e società. Da qui il paradosso che vede in Italia un aumento dei finanziamenti a disposizione delle organizzazioni non governative e una prima frattura, il contrasto con l’associazionismo dal basso, che non trova più strumenti per formalizzare il proprio impegno rispetto alle organizzazioni che si istituzionalizzano, iniziando quindi a crescere. In questo modo svolgono meglio il loro lavoro, ma si presentano altre problematicità.
Quali?
Sono sempre maggiori gli strumenti di politiche new governance, di prospettiva sempre più liberista, e le ong si confrontano così con il loro lato negativo: maggiori risorse, ma una burocratizzazione e professionalizzazione non facili da gestire, una fase che si chiude con i primi decenni dell’anno 2000. Poi negli ultimi anni cose cambiate dal punto di vista comunicativo, basti pensare all’inizio del genocidio a Gaza, la progressiva depoliticizzazione, con realtà che difficilmente trovano spazio per prendere posizione politiche.
Quali le ripercussioni sulla situazione di Gaza?
Negli ultimi due anni, da semplice osservatore, credo che abbiamo assistito a processi diversi, dove la realtà dei fatti ha portato tante organizzazioni a ripensare i modelli comunicativi, e denunciare il genocidio è stato un punto di svolta importante. Nel prossimo futuro potrebbe essere uno sviluppo interessante da osservare.
In varie parti del volume si descrive anche il ruolo della società civile in questo processo di evoluzione delle ong.
Effettivamente più di altri paesi in Italia è la società civile ad aver iniziato la cooperazione, prima delle stesse ong. Le prime esperienze reali come ponte tra l’Italia e il mondo sono state quelle della società civile tra gli anni ’60 e ’70. Con quell’imprinting, negli anni successivi ha assunto un ruolo anche come interlocutore delle istituzioni perché il loro lavoro fosse riconosciuto e tutelato, come accaduto per le prime leggi sulla cooperazione, che altrimenti avrebbe avuto connotati diversi.
Nella seconda parte si approfondisce il contesto organizzativo ed economico delle ong, e il loro rapporto con la politica. A che punto siamo, e quanto sono cambiati questi rapporti?
Come accennavo, il rapporto con la politica oggi è molto più difficile da costruire. Sono cambiati i tipi di interlocuzione, ora il sistema apartitico assume un ruolo centrale in Italia come allocazione. C’è poi un potere più tecnico, l’interlocuzione delle ong dall’essere con i partiti è ora divenuti con gli uffici, più tecnici, che però comportano rapporti diversi: prima era molto più facile e immediato discutere dei contenuti, oltre che dei mezzi, mentre ora metodi di finanziamento arrivano attraverso bandi, e per le attività supportare non cambia solo il soggetto, ma anche le tematiche, dove a volte le ong diventano quasi dei sindacati per i loro lavoratori.
Qual è secondo questo studio il futuro possibile delle ong in Italia?
Una domanda che mi sono fatto anch’io, e dopo questa analisi sono andato a indagare nella disfunzionalità del sistema, gli aspetti anche coattivi, tracciando al di là delle dinamiche le strategie che possono mettersi in campo per contrastare queste problematiche. Una su tutte, rifondare il ruolo dell’associazionismo, ripartire dalla consapevolezza prima di tutto delle associazioni, enti formati da persone. Un punto da cui ripartire per ricostruire la base sociale di chi li supporta, le competenze che mettono, riscoprire la società civile in quanto tale. In altre parole ripartire dalle radici, per ricordare da dove vengono queste esperienze, e per portare nuova forza, e un nuovo posizionamento.























