La società italiana è cambiata: anziane e anziani sono una quota consistente della popolazione e, per fortuna, la vita per ciascuno di noi si è allungata. Cronicità e non autosufficienza però spesso accompagnano gli ultimi anni di vita. Non è solo questione di quanto si vive, ma anche di come si vive.

A pagare il conto più salato del costante definanziamento del servizio sanitario nazionale allora sono proprio gli anziani. Che avrebbero, invece, bisogno di maggiori cure – non solo sanitarie – proprio nel momento di maggiore fragilità.

Le ragioni di una battaglia

“Esiste un collegamento strettissimo tra le prestazioni sanitarie e quelle per la non autosufficienza”. Lo afferma Stefano Cecconi, segretario nazionale dello Spi Cgil che aggiunge: “Le persone anziane spesso hanno bisogno di essere sostenute e accompagnate perfino per recarsi dal medico di base, in farmacia e così via. Il drammatico taglio dei servizi e del finanziamento al servizio sanitario nazionale ha prodotto i danni maggiori proprio verso le persone più fragili. Ecco perché siamo tra i protagonisti della battaglia per la difesa e il rilancio della sanità pubblica”.

La madre di tutte le questioni

La cura delle persone, a partire dalla salute, ha bisogno di uomini e donne che se ne occupino. E allora, per rilanciare il servizio sanitario, per costruire una reale integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari, integrazione necessaria e improcrastinabile, occorre partire da un grande piano di assunzioni e dalla valorizzazione del personale. Sostiene infatti il dirigente del sindacato dei pensionati: “L'assistenza sanitaria e sociosanitaria alle persone, soprattutto alle fragili, ha bisogno di operatori, di persone in carne e ossa. Certo, sono utili telemedicina e nuove tecnologie, ma l'apporto professionale umano è fondamentale e mancano migliaia e migliaia di professionisti. Questo crea abbandono e solitudine”.

Il valore delle persone

Il diritto a rimanere nella propria casa, anche quando si è in condizioni di difficoltà o di non autosufficienza, andrebbe sempre difeso e preservato. Non sempre è possibile e spesso non è così. Tra le strutture che si fanno carico di chi non ce la fa vi è L’Asp Golgi Radaelli: una struttura pubblica per i servizi alla persona, ci sono reparti di cure intermedie, quelli di Rsa e servizi diurni. “Nel 2001 sono entrata in questa struttura dopo aver vinto un concorso per Oss. Da allora a oggi le condizioni di lavoro sono davvero molto cambiate. Allora si sperava di poter essere assunti da questa struttura, oggi chi c’è, soprattutto medici e infermieri, appena può va via, e negli ultimi concorsi fatti non sono stati nemmeno coperti tutti i posti messi a bando”. Monica De Vizio è una donna di 52 anni, ma ne dimostra meno: una cascata di capelli ricci e tanta passione non solo per il proprio lavoro, ma per rivendicare condizioni di lavoro migliori per sé e per colleghe e colleghi.

Pochi e stressati

Sono quasi 400 i posti letto nella sede di Abbiategrasso della Asp, quella dove tutti i giorni si reca De Vizio, e poi ci sono i servizi diurni. Un reparto è chiuso per mancanza di terapisti, medici e infermieri nonostante le numerose le richieste di bandi per reclutarli, ma senza esisto. Gli operatori e le operatrici sanitari, devono coprire turni h24 e sono poco più di 300. Gli ospiti hanno patologie croniche gravi, compreso l’Alzheimer, poi vi sono i ricoverati per la riabilitazione intensiva. Di notte in tutto l’istituto c’è solo un infermiere e un medico, a loro spetta occuparsi delle emergenze, mentre la vigilanza dei pazienti e affidata agli operatori socio-sanitari. A loro spetta il compito della cura personale degli ospiti, della loro igiene e dei loro pasti. Davvero carichi di lavoro eccessivi: “Molti di noi sono colpiti da stress lavoro correlato, ma nessuno se ne occupa”, afferma De Vizio. Poco ascolto dalla dirigenza della struttura, e anche dal punto di vista economico le cose non vanno meglio: “Certo, ci viene applicato il contratto collettivo di lavoro della sanità, ma i salari non sono certo alti. Non si riesce nemmeno ad attenere nulla dal possibile integrativo. Eppure la retta giornaliera degli ospiti delle Rsa non è bassa, pagano 90 euro per i soli servizi alberghieri, quelli sanitari sono a carico del servizio sanitario nazionale”.

Rsa o meglio casa propria?

La verità è che, come attestano gli studi più avanzati, le istituzionalizzazioni non sono desiderabili, anzi chiunque dovrebbe avere la possibilità e il diritto di vivere in modo autonomo a casa propria anche molto avanti con l’età e affetto da patologie croniche. Aggiunge Stefano Cecconi: “Il potenziamento dei servizi territoriali, sociali e sanitari, risponde anche all’idea di società nuova che rispetta la libertà di scelta. Chiunque, nell'età più delicata della vita, deve poter scegliere di essere curato e assistito a casa propria, vicino ai propri cari, in ambienti domestici e familiari e non per forza istituzionalizzati ed esposti, così come si è visto con la pandemia, a rischi anche maggiori. Tutto questo, però, non può essere scaricato sulle famiglie, serve un investimento assolutamente formidabile”. Investimento che deve essere economico a cominciare dal personale, ma che deve partire da un diverso modello organizzativo non più ospedale-centrico.

Una legge c’è

Lo scorso marzo è entrata in vigore la legge sulla non autosufficienza. Frutto anche del lavoro e dell’impegno dello Spi Cgil: “Va nella direzione giusta – aggiunge il segretario - perché parla decisamente di potenziare tutto ciò che diventa assistenza nei luoghi della vita quotidiana, secondo un principio molto ovvio: che le condizioni di cronicità possono essere affrontate, in alcuni casi più gravi o acuti certamente in un ospedale o con un servizio d'emergenza, ma principalmente attraverso un'attività quotidiana di sostegno. È una scelta che implica un cambiamento radicale e forte negli investimenti”.

Da sola la norma non basta

Ciò che è pubblicato in Gazzetta Ufficiale è il presupposto ma, se non viene prevista una adeguata copertura finanziaria, quella legge rimarrà lettera morta. E al momento il governo Meloni questo finanziamento adeguato non l'ha previsto. Lo stesso ragionamento vale per la missione 6 del Pnrr, quella che dovrebbe ricostruire la sanità di territorio. “Il Pnrr prevede case di comunità e potenziamento dell'assistenza domiciliare, ma senza personale tutto questo diventa pura retorica. In più teniamo conto che i tempi di attuazione di questi processi di cambiamento non sono di poche ore. C'è bisogno di tempo: noi temiamo che al 2026, al termine del tempo di realizzazione del Pnnr, saremo ancora al punto di partenza”.

Sabato 24 giugno, c’è da scommetterlo, in piazza del Popolo a Roma i pensionati e le pensionate saranno in tanti. Saranno i primi ad arrivare per chiedere, anzi giustamente pretendere, che il servizio sanitario nazionale pubblico e universale, conquistato con le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici degli anni '70, oggi sia rilanciato: pubblico e universale.