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Per i ruoli svolti è tra le personalità più qualificate in materia di giustizia e di Costituzione. Pietro Grasso – fra i molti incarichi che ha ricoperto - è stato titolare dell’indagine sull’assassinio di Piersanti Mattarella e giudice a latere nel maxi-processo contro la mafia; da allora la collaborazione e l’amicizia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non si interruppe se non con l’uccisione per mano mafiosa dei due giudici. Nel 1999 fu nominato Procuratore della Repubblica di Palermo. Sotto la direzione di Grasso, dal 2000 al 2004, furono arrestate 1.779 persone per reati di mafia e 13 latitanti inseriti tra i 30 più pericolosi. Nello stesso arco di tempo la procura del capoluogo siciliano ottenne 380 ergastoli e centinaia di condanne per migliaia di anni di carcere. Nel 2005 è diventato Procuratore nazionale antimafia. Il suo impegno lo porta in Senato dove viene eletto presidente di quella camera.
Presidente, che cosa è la legge Nordio? Una riforma della giustizia, una riforma della magistratura o una manomissione dei principi fondanti della Costituzione?
È molto più di una semplice riforma della giustizia. È un intervento che tocca l’architettura stessa della Costituzione repubblicana, nata per garantire l’equilibrio e l’indipendenza dei poteri. La cosiddetta “legge Nordio” non accelera i processi, non migliora l’efficienza degli uffici, non offre risposte ai cittadini che chiedono giustizia in tempi certi. Piuttosto, modifica l’assetto del potere giudiziario, separando le carriere tra pubblici ministeri e giudici e istituendo due Consigli superiori distinti, oltre a un’Alta corte disciplinare. Si presenta come una riforma “tecnica”, ma nella sostanza è un intervento politico e simbolico che rischia di alterare l’equilibrio costituzionale, rendendo il pubblico ministero un organo di parte e avvicinandolo al potere esecutivo. La Costituzione voleva una magistratura unitaria, autonoma e indipendente. Con questa legge, si apre una breccia che potrebbe diventare una voragine.
Perché, per tutelare i diritti dei cittadini e delle cittadine, l’equilibrio tra poteri – esecutivo, legislativo e giudiziario – è così importante?
Perché senza equilibrio non c’è democrazia. I padri costituenti, reduci dall’esperienza del fascismo, vollero un sistema in cui nessun potere potesse prevalere sugli altri. La magistratura doveva essere indipendente proprio per impedire che la politica potesse piegare la giustizia ai propri interessi. Se il potere esecutivo potesse influire sull’azione penale, scegliere quali indagini avviare e quali no, il principio di uguaglianza davanti alla legge sarebbe solo una finzione. L’equilibrio tra i poteri è ciò che protegge il cittadino comune dal potere del più forte. La separazione delle carriere rischia di indebolire proprio questo equilibrio, perché allontana il pubblico ministero dal giudice e lo avvicina, inevitabilmente, al governo. E una volta che l’indipendenza è compromessa, anche la libertà dei cittadini diventa precaria.
Però l’articolo della Costituzione che sancisce l’autonomia della magistratura non viene modificato dalla legge Nordio. In che modo, allora, si riduce l’autonomia dei magistrati?
È vero, l’articolo non viene formalmente modificato. Ma la Costituzione non si cambia solo con le parole: si può svuotare con gli effetti. L’articolo 107, quarto comma, stabilisce che il pubblico ministero gode delle stesse garanzie di indipendenza previste per i giudici. Tuttavia, la riforma introduce due ordini separati e due Csm distinti. Ciò significa che, con una semplice legge ordinaria, una futura maggioranza potrà decidere di modificare l’ordinamento del pubblico ministero, riducendone l’autonomia. È un rischio concreto. In tutti i Paesi dove le carriere sono separate, l’azione penale è di fatto soggetta al controllo del governo. Oggi si dice che non accadrà, ma domani basterebbe una legge per stabilire priorità, limiti o direttive politiche alle procure. Non si tratta di un processo alle intenzioni, ma di una constatazione giuridica. Quando si divide un corpo unitario, si rende più facile condizionarlo. È la fine silenziosa dell’indipendenza. È la metafora della pistola di Cechov: ora la mettiamo sul tavolo, presto sparerà.
Lei più volte ha sottolineato l’importanza che sia i pm che i giudici appartengano alla stessa cultura giuridica. Ci spiega perché?
Perché la giustizia non è una battaglia tra avversari, ma una ricerca comune della verità. Pubblico ministero e giudice devono condividere una stessa cultura della legalità, dello Stato di diritto, dei diritti della difesa. Avere formazione, linguaggio e sensibilità giuridica comuni significa garantire che l’intero processo resti fedele ai principi costituzionali. Se invece separiamo le carriere, rischiamo di creare due mondi diversi: da una parte il Pm, trasformato in un “avvocato dell’accusa” con obiettivi di risultato; dall’altra il giudice, isolato, privato del confronto professionale con chi indaga e costruisce le prove. Io stesso, nella mia esperienza, ho potuto capire quanto fosse prezioso aver esercitato entrambe le funzioni. Fare il giudice mi ha insegnato la prudenza, l’accortezza nella valutazione della prova; fare il Pm mi ha insegnato la determinazione. Quell’osmosi tra le due culture è ciò che rende la giustizia equilibrata. Spezzarla è un impoverimento, non un progresso.
In primavera si celebrerà il referendum costituzionale. Perché è importante votare No?
Perché questo referendum non è una questione di appartenenza politica, ma di difesa della Costituzione. Votare “No” significa dire che la giustizia non può essere messa al servizio del potere, che il pubblico ministero deve restare libero di indagare, che il giudice deve continuare a essere terzo, e che entrambi devono appartenere a un unico ordine autonomo. Chi pensa che la separazione delle carriere porterà maggiore imparzialità si illude: accadrà il contrario. Si creerà una giustizia divisa, più vulnerabile alle pressioni, meno capace di garantire i diritti. Le riforme necessarie sono altre: investire nella digitalizzazione, ridurre gli uffici giudiziari, aumentare il personale, semplificare i procedimenti. Votare “No” significa preservare un equilibrio faticosamente conquistato dopo il fascismo, quello in cui il giudice e il pubblico ministero sono entrambi servitori della legge, non del potere. Io credo che il popolo italiano saprà riconoscere la posta in gioco. Non si tratta di difendere i magistrati, ma di difendere la libertà e l’uguaglianza di tutti i cittadini. Per questo il mio appello è semplice: il voto contrario a questa riforma non è un voto conservatore, ma un atto di fiducia nella Costituzione e nel suo spirito più autentico.



























