A Genova hanno dormito sull’asfalto per ricordare al Paese che l’acciaio non è una pagina d’album ma una corda tesa tra il passato e ciò che resta del futuro. Hanno occupato lo stabilimento come si presidia un confine sacro, con la stessa ostinazione di chi sa che ogni ora in più è una dichiarazione di esistenza. L’alba li ha trovati ancora lì, quasi a smentire chi si illude che la pazienza operaia sia una risorsa infinita.

A Taranto la mobilitazione è cresciuta come una febbre antica. Nel vento del porto è risuonata la domanda che nessuno a Roma osa ascoltare, perché potrebbe incrinare la narrazione del Paese che vola. Eppure tutto scricchiola. Se l’acciaio trema, trema la manifattura intera. Ma al ministero fanno spallucce, come se il destino industriale della Repubblica fosse un appunto frettoloso tracciato sul retro di una cartellina.

Il ministro Urso avanza sereno nella sua strategia, oscillante tra il tatticismo di un cartomante e l’arroganza del giocatore che rilancia senza avere carte. I sindacati chiedono di togliergli il volante, e forse la patente, prima che decida di imboccare contromano l’ultimo tratto di autostrada. A oggi lo schianto non è un’ipotesi remota ma un tragitto già impostato dal navigatore.

La premier osserva in silenzio, e questo silenzio rimbomba più dei cori di fabbrica. Forse attende che la crisi si auto-risolva, come se l’acciaio potesse fondersi per miracolo e ricomporsi in un modello di sviluppo sostenibile pronto all’uso.

Intanto gli operai resistono, vegliano, discutono. Mettono in fila le ore, stanchi ma determinati. Loro sì che conoscono il peso dell’acciaio, e anche il valore del tempo. Non vendono la pelle dell’orso. Lottano perché l’orso sia ancora vivo, perché non diventi l’ennesima carcassa appesa al muro dell’incapacità politica. L’ex Ilva è il test che nessuno può barare. Se fallisce, fallisce l’idea stessa di essere ancora un Paese capace di produrre, scegliere, lottare.