In un’Italia ancora prevalentemente rurale e segnata da profonde disuguaglianze sociali, nell’agosto 1892 nasce Giuseppe Di Vittorio, destinato a diventare il più influente e amato dirigente sindacale della storia d’Italia.

Le sue origini non sono operaie, ma contadine: figlio di braccianti agricoli poverissimi, Peppino conosce sulla propria pelle la durezza dello sfruttamento fin da bambino, un’esperienza che forgerà la sua vocazione. Autodidatta, Di Vittorio completa solo la terza elementare, ma la sua sete di conoscenza lo porta a una formazione politica precoce e intensa.

A soli 12 anni è già membro del sindacato dei contadini; a 15 è tra i promotori del circolo giovanile socialista di Cerignola. Il suo linguaggio, semplice ma straordinariamente efficace e carico di pathos, gli permette di farsi comprendere sia dai braccianti sia dalla nascente classe operaia urbana.

Sebbene alcune interpretazioni lo abbiano riduttivamente etichettato come un mero “capopopolo”, Di Vittorio fu in realtà un grande riformatore e un politico di notevole raffinatezza, con una spiccata capacità di guardare ai tempi lunghi.

Giuseppe Di Vittorio parla alla folla nel 1952 durante un comizio a Napoli

“Dio sa quanto conoscessi i suoi limiti e le sue debolezze, e quante volte mi sia ribellato a certe ristrette manifestazioni della sua mentalità di contadino meridionale”, dirà di lui Bruno Trentin: “Ma sento sempre di più quello che quest’uomo ha rappresentato per me, nella mia formazione di uomo politico e – retorica a parte – semplicemente di uomo. Sento la sua forza e la sua giovinezza, il suo ottimismo intellettuale, sempre ‘provocatorio’, come una delle cose più ricche che mi abbiano trasformato in questi ultimi anni”.

Trentin evidenzia che “qualche volta – e in questi ultimi tempi, spesso – questa forza diventava meno razionale, ingenua e puramente polemica. Ma anche in questi casi restava come un’esigenza, come un richiamo a un certo linguaggio, fresco e stimolante, come l’affermazione polemica di un metodo che io sento sempre più vivo e valido: non si può mettere in crisi nessun ‘sistema’, in una società o in un uomo, se non avendo fiducia nell’elemento positivo, progressivo, illuminato, che ne ha giustificato l’esistenza, se non sottolineando l’incapacità di una società o di un uomo a realizzare vittoriosamente la sua ragione d’essere”.

Per Trentin “Di Vittorio vedeva, anche in modo ingenuo, nella società capitalistica italiana ‘la ricchezza che poteva essere prodotta’ – e che non lo era – piuttosto che la ‘povertà’ esistente. Ed era l’idea della ‘ricchezza’ a entusiasmarlo. Per questo non poteva essere un fatalista o un positivista da quattro soldi. Per questo voleva, con accanimento, da autodidatta, essere un uomo del proprio tempo: era stupito dalle macchine, dalla televisione e dai nuovi modelli di automobili. Rispettava come profeti gli scienziati e i medici. Voleva essere sempre ‘al corrente’ delle cose. Temeva con angoscia, come uomo e come Cgil, di venir ‘escluso’, di non svolgere un ruolo riconosciuto nello sviluppo della società contemporanea”.

Trentin così concludeva: “Era d’altro canto uomo di un’altra epoca e aveva il fiatone negli ultimi tempi. Il suo sforzo diventava straziante, ma era sempre magnifico e grandioso. La sua morte rappresenta davvero, in Italia, la fine di un’epoca, quella un po’ ‘populistica’ e romantica del dopoguerra, e gli inizi di un’altra. E ha saputo essere l’uomo del passato e insieme l’uomo della transizione. Ha capito quello che c’era di nuovo nella storia e, con tutte le sue forze, da toro qual era, ha fatto di tutto per capire, e per esistere, da uomo moderno”.

Roma, 10 giugno 1944. Giuseppe Di Vittorio commemora Giacomo Matteotti

Il suo impatto va oltre l’ambito sindacale: Di Vittorio parla con forza non solo ai lavoratori – che educò – ma anche alle classi dirigenti del Paese, ponendosi come un punto di riferimento essenziale per il rinnovamento della politica e dell’economia.

Orfano di padre, è costretto ad abbandonare la scuola elementare a soli nove anni per lavorare come bracciante. Nonostante ciò, sarà un autodidatta eccezionale, dedicando le lunghe notti alla lettura di ogni genere di testo, dalle Sacre Scritture a Marx ed Engels. Il sapere era per lui una condizione fondamentale della vita, uno strumento per l’emancipazione e la conquista della libertà. Questa autoformazione gli permetterà di evolvere da bracciante a promotore del circolo giovanile socialista e direttore della Camera del lavoro, utilizzando la conoscenza come arma contro l’ignoranza e l’ingiustizia.

“Io non sono, non ho mai preteso né pretendo di essere un uomo rappresentativo della cultura”, diceva Di Vittorio a Bologna nel 1953: “Però sono rappresentativo di qualche cosa. Io credo di essere rappresentativo di quegli strati profondi delle masse popolari più umili e più povere che aspirano alla cultura, che si sforzano di studiare e cercano di raggiungere quel grado del sapere che permetta loro non solo di assicurare la propria elevazione come persone singole, di sviluppare la propria personalità, ma di conquistarsi quella condizione che conferisce alle masse popolari un senso più elevato della propria funzione sociale, della propria dignità nazionale e umana”.

Per Di Vittorio “la cultura non soltanto libera queste masse dai pregiudizi che derivano dall’ignoranza, dai limiti che questa pone all’orizzonte degli uomini: la cultura è anche uno strumento per andare avanti e far andare avanti, progredire e innalzare tutta la società nazionale (…) Io sono, in un certo senso, un evaso da quel mondo dove ancora imperano in larga misura l’ignoranza, la superstizione, i pregiudizi, gli apriorismi dogmatici che derivano da questa ignoranza. Io lo conosco quel mondo, profondamente. Ci sono vissuto e so quanto siano grandi gli sforzi che occorrono per tentare di uscirne. Ma in quel mondo, dietro quel muro, vi sono ancora milioni di italiani, milioni di fratelli nostri”.

Di Vittorio così conclude: “Tutte le iniziative, tutte le forme di organizzazione, tutti i tentativi debbono essere fatti per accorrere in aiuto di questi nostri fratelli, per aiutarli a liberarsi da questa ignoranza, perché anch’essi possano provare a sentire le gioie e i tormenti dell’accesso al sapere. Dobbiamo andare fra quelle masse di nostri fratelli, chiamarle, stimolarle alla vita nuova, al sapere, al conoscere, a vedere alto e lontano; dobbiamo andare come un trattore potente su un terreno incolto da secoli per fecondarlo e trarlo a coltura, a vita, a bene della società”.

Fin da giovane leader del movimento sindacale pugliese, Di Vittorio fu un convinto e intransigente antifascista. La sua vita è segnata da una lunga persecuzione, che lo porterà al confino e all’esilio. Un momento fondamentale della sua biografia è la partecipazione alla guerra civile spagnola nel 1936 dove lotta per la libertà contro il fascismo e il nazismo.

Durante l’esilio, in particolare tra il 1937 e il 1939, dirige a Parigi il quotidiano La Voce degli Italiani, un punto di riferimento per l’emigrazione politica e di lavoro. Attraverso il giornale Di Vittorio analizza il fascismo non solo come fenomeno politico, ma come un tentativo retorico di creare un’identificazione fittizia tra popolo, nazione e Stato, tentando di penetrarne le fragilità ideologiche e concentrandosi sulle dinamiche internazionali.

Deputato già nel 1921, Peppino partecipa alla Consulta nazionale e all’Assemblea costituente. Tra i firmatari del Patto di Roma, guida la Cgil fino alla sua morte.

Un aspetto centrale della sua azione è la visione del “popolo lavoratore” come base imprescindibile della coesione sociale e del senso di comunità nazionale. Per lui i lavoratori non sono solo una categoria, ma la sostanza stessa della cittadinanza. Considerando i lavoratori il valore fondamentale di uno Stato democratico, Di Vittorio intuisce precocemente la necessità di portare la Costituzione nelle fabbriche, democratizzando i luoghi di lavoro

Tenace difensore dell’unità sindacale, dopo le scissioni del 1948-1950 sosterrà che il giorno dopo la rottura doveva essere il primo giorno utile per la ripresa del dialogo unitario. Il suo “Piano del lavoro” sarà una proposta fondamentale per affrontare le debolezze strutturali della Repubblica, sebbene sottovalutato dalle classi dirigenti.

La complessa sua adesione al socialismo e poi al comunismo non sarà mai totalmente ortodossa. La sua autonomia di pensiero raggiunge un momento di sintesi cruciale in occasione dei fatti d’Ungheria del 1956. In quell’occasione la Cgil, sotto la sua guida, emana un duro comunicato che esprime una condanna severa e inequivocabile dell’intervento sovietico, differenziandosi marcatamente dalla linea del Pci. Questo atto è considerato uno spartiacque, un “testamento politico” che cristallizza la sua libertà intellettuale.

Peppino muore a Lecco il 3 novembre 1957. La sua morte coglie di sorpresa l’intero Paese lasciando un vuoto profondo nel mondo del lavoro, nella sinistra italiana e nella società civile. Il viaggio della salma dalla Lombardia a Roma è indimenticabile.

A ogni stazione ferroviaria il treno deve sostare più a lungo per la folla che, a pugno chiuso, si riversa nelle piazze a salutare Peppino. Sette anni prima di Togliatti, 27 anni prima di Berlinguer, è il primo vero lutto collettivo della sinistra italiana.

“A corso d’Italia, nella chiesetta laica improvvisata – raccontava Gianni Toti sul Lavoro, il rotocalco della Cgil da lui diretto dal 1952 al 1958 –, un vecchio operaio meridionale si getta sulla bara, singhiozzando. Grida, a coloro che lo trascinano via: è finito lu cafone, è finito. Ed è finito davvero, il cafone meridionale che mangiava acqua e sale nella cafoneria e si toglieva il cappello quando passava l’agrario, sublimato dalla crescita umana del cafone Peppino e del movimento, oggi adulto, che lo aveva costruito a sua immagine e somiglianza. Ché oggi i ragazzi di Cerignola che hanno l’età che Peppino aveva quando studiava al lume della candela nella cafoneria tra i braccianti addormentati, sanno quanto alto e libero può salire il cafone del Sud assieme all’operaio del Nord, promosso cittadino di una Repubblica del lavoro, riscattato per sempre”.

“Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie”, osservava su Vie Nuove Pier Paolo Pasolini, raccontando in maniera mirabile il giorno dei funerali: “Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città”.

Così ancora Pasolini: “Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce (…) Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono”.

“Tutti i negozi lungo il percorso avevano abbassato le saracinesche, così i cinema e i caffè”, riportava l’Unità: “Pareva che tutta la città si fosse data questo mesto appuntamento e che si confondesse così ogni distinzione di ceti sociali, di età, di mestiere. Mischiati fra la folla abbiamo visto volti noti di amici, di operai e di intellettuali. Vasco Pratolini piangeva accoratamente in prima fila lungo l’ala destra di corso Italia; tipografi del giornale, fattorini, commesse di negozi, studenti, giardinieri di Villa Borghese, pensionati delle ferrovie, operai in tuta della sede Pirelli, vicino a piazza della Croce Rossa: tutti sostavano lungo il percorso”.

Prosegue il quotidiano comunista: “Era davvero come se fossero presenti qui i lavoratori di tutta Italia, quegli operai che tenevano i ritratti di Di Vittorio nelle stanzette delle Commissioni interne, nei saloni delle Camere del lavoro, quei braccianti, quei mezzadri, quegli impiegati di ogni corrente sindacale e politica per i quali il nome del segretario della Cgil era prima di tutto il nome di un compagno e di un amico prezioso”.

Un compagno, un amico prezioso che continua a guidare il nostro cammino. Perché lavorare nella Cgil e per la Cgil non è, non può essere, un mestiere come un altro.

“Lo so, cari compagni, che la vita del militante sindacale di base è una vita di sacrifici”, diceva Peppino: “Conosco le amarezze, le delusioni, il tempo talvolta che richiede l’attività sindacale, con risultati non del tutto soddisfacenti. Conosco bene tutto questo, perché anch’io sono stato attivista sindacale: voi sapete bene che io non provengo dall’alto, provengo dal basso, ho cominciato a fare il socio del mio sindacato di categoria, poi il membro del Consiglio del sindacato, poi il segretario del sindacato, e così via: quindi, tutto quello che voi fate, che voi soffrite, di cui qualche volta anche avete soddisfazione, io l’ho fatto. Gli attivisti del nostro sindacato, però, possono avere la profonda soddisfazione di servire una causa veramente alta”.

Per Di Vittorio “la nostra causa è veramente giusta, serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli. Quando la causa è così alta merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici. So che una campagna come quella per il tesseramento sindacale richiede sacrifici, so anche che dà, certe volte, delusioni amare. Ci sono ancora lavoratori che non hanno compreso, ma non bisogna scoraggiarsi. Pensate sempre che la nostra causa è la causa del progresso generale, della civiltà della giustizia fra gli uomini. Lavorate sodo, dunque, e soprattutto lottate insieme, rimanete uniti”.

Il segretario generale Cgil così concludeva: “Il sindacato vuol dire unione, compattezza. Uniamoci con tutti gli altri lavoratori: in ciò sta la nostra forza, questo è il nostro credo. Lavorate con tenacia, con pazienza: come il piccolo rivolo contribuisce a ingrossare il grande fiume, a renderlo travolgente, così anche ogni piccolo contributo di ogni militante confluisce nel maestoso fiume della nostra storia, serve a rafforzare la grande famiglia dei lavoratori italiani, la nostra Cgil, strumento della nostra forza, garanzia del nostro avvenire. Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere. Buon lavoro, compagni”.