Quaranta euro al mese. Una mancia che nemmeno la zia distratta a Natale. È il prezzo che la Repubblica dei Bonus assegna oggi alla maternità, con l’entusiasmo di chi si libera della coscienza in comode rate. Si chiama “bonus mamme”, ma somiglia più a un gratta e vinci del patriarcato. Gratta qui, magari esce la benedizione del governo, ma il premio è sempre lo stesso: la precarietà con fiocco rosa.

La madre italiana, per lo Stato, è una figura mitologica. Deve lavorare, procreare, sorridere e ringraziare. Per lei l’Inps ha confezionato una perla di burocrazia poetica: domanda entro quaranta giorni, importo entro febbraio, scadenza a vista, speranza illimitata. È la maternità come pratica amministrativa, con un codice tributo e un promemoria su Google Calendar.

Si potrebbe ridere, se non fosse così feroce la caricatura. Perché dietro l’ennesimo “aiutino” si nasconde la solita idea tossica: le donne si aiutano a colpi di bonus, non con salari decenti, asili accessibili o contratti stabili. Le madri con due figli valgono dieci anni del secondogenito; con tre valgono diciotto del terzogenito. Un’economia dell’affetto a scadenza, regolata come un mutuo d’amore con interessi zero e dignità in perdita.

Ben lontani i tempi della giugulare “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”. Ora quella promessa d’identità si è ridotta a un assegno da pochi spicci, una liturgia della maternità senza miracoli, un rosario di moduli e autodichiarazioni. La madre è sempre donna, sì, ma nel frattempo anche contribuente, codice fiscale e pratica pendente.

Forse un giorno l’Inps lancerà il “bonus carità”, sempre da 40 euro, per chi ha resistito alla presa in giro senza perdere l’ironia. Nel frattempo, alle madri italiane resta l’arte antica di fare miracoli: tirare avanti, crescere figli e sorridere davanti al Paese che le chiama “eroine” solo quando costano poco.