Nel 1923, dopo la chiusura della Camera del lavoro di Bari, Di Vittorio decide di trasferire la famiglia a Roma preoccupandosi di trovare una casa che abbia un pezzo di terra da lavorare. “Faceva la spola - ricorda Raffaele Pastore - la mattina fino alle 12 il contadino, il pomeriggio a Roma per fare il deputato”. 

Va avanti così finché il 13 settembre 1925 lo arrestano. Scarcerato il 10 maggio 1926 non resta molto in libertà: subisce altri arresti che inducono il Partito comunista, a cui ha aderito nel 1924, a farlo espatriare.

Per Di Vittorio inizia un lungo esilio, che termina il 10 febbraio 1941, quando è arrestato in Francia dai nazisti. 

La prigionia francese con Bruno Buozzi

Nel carcere de La Santé, a Parigi, Peppino ritrova il compagno e amico Bruno Buozzi.

Racconterà lui stesso nel decennale della morte di Buozzi:

II nostro incontro avvenne nel febbraio 1941, nella prigione della "Santé". Ignoravo che anche Buozzi si trovasse rinchiuso nella stessa prigione. Un giorno, verso la fine di febbraio, la polizia hitleriana addetta alle funzioni carcerarie, trasse dalla monotonia delle celle d’isolamento un folto gruppo di detenuti per una «corvèe». Bisognava scaricare alcuni autocarri carichi di eccellente pane, destinato ai nostri carcerieri. Fummo raggruppati in un cortile, dal quale poi, per gruppi di dieci detenuti in fila indiana, scortati da guardie armate di mitra, si partiva carichi di sacchi ripieni di pagnotte, verso i magazzini dell’immensa prigione. Fu in quel raggruppamento di detenuti comandati alla "corvèe" che rividi Bruno Buozzi. Appena i nostri occhi si incontrarono, con moto quasi istintivo manovrammo entrambi accortamente per avvicinarci l’uno all’altro. Riuscimmo appena a toccarci furtivamente le mani, giacché la severissima vigilanza dei nostri aguzzini tendeva a rendere impossibile ogni scambio di parole e di segni fra detenuti. Vidi gli occhi amichevoli di Buozzi brillare di gioia nel vedermi: ero la prima persona conosciuta e amica che incontrava in quella triste prigione, nello stato di angoscia in cui lo aveva gettato l’arresto. "Per me non m’importa nulla", mi disse subito: "mi preoccupa il grande dolore di mia moglie e della mia bambina, poveretti!". Un urlo da belva emesso da uno dei nostri guardiani, che aveva sentito il bisbiglio di quelle poche parole, troncò sull’inizio la nostra conversazione. Tuttavia riuscimmo a rimanere nello stesso gruppo di dieci e a marciare l’uno dopo l’altro nella "corvèe". Mentre salivamo uno scalone, curvi sotto il carico del pane, riuscii a dire a Buozzi parole di conforto per la sua famiglia e cercai di sapere le cause del suo arresto. Buozzi mi disse che la Gestapo hitleriana, ignara della sua vera personalità, voleva sapere da lui i motivi del suo arresto, dato ch’Egli era stato arrestato su richiesta del governo fascista italiano, per essere trasferito in Italia, a disposizione di Mussolini. Bruno Buozzi aveva appena completato la frase, che uno dei nostri guardiani, con uno spintone improvviso a Buozzi - che mi precedeva - ci sbatté a terra entrambi, facendoci ruzzolare sulle scale, col nostro carico di pane, coprendoci d’improperi e di minacce. Fummo subito separati e riportati ognuno nella propria cella, col rimpianto di non aver potuto continuare il discorso e con le narici inondate dalla fragranza di quel pane fresco, che la fame ci faceva sognare ogni notte! Da quel momento, però, con la tecnica nota ai vecchi carcerati politici, riuscii a stabilire collegamenti quasi regolari con Buozzi mediante lo scambio di biglietti, con i quali ci mandavamo notizie e pensieri e qualche cibaria. Dopo alcuni giorni riuscimmo sovente a prendere l’ora d’aria quotidiana nello stesso cortile, dove la possibilità e la volontà dei detenuti di conversare fra loro sono più forti della più occhiuta vigilanza. Tutte le nostre conversazioni, partendo dal presupposto comune dell’assoluta necessità dell’unità sindacale, nazionale e internazionale, e dall’esigenza imperiosa dell’unità d’azione fra i due partiti, comunista e socialista - quale base fondamentale d’unità della classe operaia - rafforzavano continuamente il nostro accordo sulle questioni di maggiore interesse, relative alla riorganizzazione del movimento operaio italiano e alla ricostituzione democratica dell’Italia.

Sono le premesse per il Patto di Roma, che sarà siglato nella capitale tre anni dopo. Un patto siglato da Giuseppe Di Vittorio per i comunisti, Achille Grandi per i democristiani, Emilio Canevari per i socialisti. Mancherà una firma, quella di Bruno Buozzi, trucidato dai nazifascisti poche ore prima.