“Ho una proposta: ministero della Pubblica istruzione democratica e del contrasto a ogni discriminazione”. Così, secco, Franco Lorenzoni, quando gli si domanda cosa pensa del nuovo nome – bizzarro a esser buoni – assegnato al dicastero di viale Trastevere: ministero dell’Istruzione e del merito. “Già la Moratti aveva eliminato il termine ‘pubblica’, ma adesso si va addirittura oltre”, nota sarcastico. Lorenzoni, il "maestro di Giove", ha insegnato per decenni nelle scuole elementari e nel 1980 ha fondato ad Amelia la Casa-laboratorio di Cenci, un centro di sperimentazione educativa che fa ricerca intorno a temi ecologici, scientifici, interculturali e di inclusione. È una delle voci più autorevoli della pedagogia italiana, nonché giornalista e scrittore: il suo ultimo libro è I bambini pensano grande (Sellerio). Nel 1989 ha ricevuto la laurea magistrale “Honoris causa” in Scienze della formazione primaria dall'Università di Bologna. 

Tuttavia, l’articolo 34 della Costituzione recita che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Cosa c’è dunque che non va nella parola “merito”?

Il punto è che “merito” oggi è un termine avvelenato, perché consolida un aspetto della nostra scuola particolarmente negativo. Vale a dire, premiare gli “ereditieri”, coloro che già in partenza hanno competenze linguistiche e, in generale, rapporti con la cultura per origini familiari. Il nostro sistema fatica tantissimo ad attuare non solo l’articolo 34 della Costituzione, ma soprattutto l’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…”. 

Un compito molto impegnativo…

Sì, ma fondamentale. Nel dibattito all’interno della Costituente, qualcuno disse che quel “rimuovere gli ostacoli” aveva un sapore troppo materiale, da operai, come se si dovesse costruire una strada. E invece, come notava Lelio Basso, era proprio quello che si doveva fare, a partire dalla scuola: rimuovere gli ostacoli sul cammino della conoscenza. Purtroppo da allora è cambiato poco, così come poco è cambiato anche dalle rivendicazioni dei ragazzi di Barbiana, ben 50 anni fa: nella scuola continua a esserci una forte discriminante di classe. Al liceo classico vanno i figli dei professionisti e dei ceti più elevati e poi, via via, i diversi indirizzi delle superiori sono segnati dalle diverse provenienze sociali e geografiche. 

Insomma, in queste condizioni parlare di “merito” in maniera non inquinata è difficile…

Il concetto di merito svia dalla ferita più profonda del nostro sistema dell’istruzione, e cioè il fatto che non riesce a rompere i destini segnati dalla provenienza sociale. Calamandrei, al contrario, diceva che la scuola deve essere un'incubatrice dei destini, cioè un “marchingegno umano” che ha il compito di sopperire ai deficit dati dalle condizioni esterne. Questo è il nodo centrale: in Italia la scuola fatica, per tornare all’articolo 3, a rimuovere questi ostacoli e favorire il “pieno sviluppo della natura umana”, che è un’utopia meravigliosa. E inattuata: oggi non solo facciamo “parti uguali tra disuguali”, come denunciava Don Milani, ma spesso diamo di più a chi ha di più.

Per non parlare dei ghetti: scuole o anche singole sezioni dove vengono “ammassati” migranti e magari anche ragazze e ragazzi con disabilità.

Purtroppo è così e questa situazione è certificata dai dati Invalsi. In molte scuole nelle sezioni ultime in ordine alfabetico si concentrano i ragazzi con più difficoltà (disabili, immigrati…)  e spesso anche i professori precari. La scusa è quella dei percorsi differenziati che in queste situazioni sarebbero più efficaci, ma non è così.

D’altro canto le classi differenziali per i portatori di disabilità sono state abolite nel 1977…

Sì, e si è trattato di una delle riforme più importanti che hanno interessato la scuola. È vero che insegnare in situazioni e con livelli molto eterogenei può essere faticoso, ma si tratta di una grande ricchezza. Per tutti. Io sono a favore della disomogeneità. Tanti studi ci dicono che chi ha fatto una scuola primaria insieme a un bambino con disabilità ha maggiori competenze sociali e relazionali. È un confronto che arricchisce tutti e, soprattutto, ha reso visibile una parte della popolazione che era segregata. Insomma: lo sviluppo della democrazia si misura sulla visibilità di tutte le differenze, mentre se il tuo riferimento è il merito, vai in direzione opposta. 

Però il concetto di merito evoca anche aspetti positivi: il fatto che si vada avanti, soprattutto nel lavoro, per le proprie capacità e non per conoscenze spesso derivate da rapporti familiari.

C’è ovviamente una versione del concetto di merito che è condivisibile, soprattutto in una realtà come l’Italia in cui la corruzione è molto diffusa e in cui giustamente le persone vogliono essere valorizzate per le proprie qualità. Il problema è che queste qualità la scuola le deve curare, e curare in modo diverso a seconda della provenienza delle persone. E questo invece la scuola ha difficoltà a farlo.

C’è anche un problema di mancati investimenti. È fin troppo facile ricordare che l’attuale ministro Valditara è stato il relatore della legge Gelmini che ha tagliato 8 miliardi di euro…

Sono anni che nella scuola non si investe, sia in termini economici che culturali. Nel dopoguerra c’era una fiducia enorme nella capacità che il sistema dell’istruzione aveva di migliorare la condizione sociale delle persone. Da tempo non è più così e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Per fare un esempio legato all’attualità, l’Ucraina, paese molto meno ricco del nostro, ha una percentuale di laureati doppia di quella italiana.

Secondo te da dove bisogna cominciare per cambiare questa situazione?

Dobbiamo innanzitutto investire sulla formazione degli insegnanti. Oggi, a parte la scuola elementare che sta un po’ meglio sulla formazione pedagogica, dalla media inferiore in poi arrivano insegnanti che non hanno nessuna cognizione delle relazioni educative. In una situazione di grandissima sofferenza degli adolescenti – acuita dal covid – non hanno strumenti per stare con i ragazzi. Oggi educare è diventato molto più difficile. Dico educare perché non c’è istruzione senza educazione.

Non c’è anche un problema, in questo senso, di valorizzazione degli insegnanti?

Certamente. Sicuramente è fondamentale un aumento salariale: le retribuzione sono troppo basse. Credo poi che agli insegnanti bisogna chiedere un po’ di più. Un docente oggi ha bisogno di studiare e formarsi per tutta la vita: non si è più credibili se ci si limita a spiegare e interrogare. Purtroppo a fare queste cose finora non c’è riuscito praticamente nessuno. Un’eccezione fu quella di Marco Rossi-Doria che, quando era sottosegretario all’Istruzione, aveva creato un gruppo di accompagnamento alle nuove indicazioni del 2012, quelle che superavano la rigidità dei programmi in favore di curricula che potevano essere adattati alle singole realtà e contesti delle diverse scuole. Ma i finanziamenti erano scarsissimi. Poi venne la Buona scuola, un vero pasticcio.

In effetti a questa situazione di stasi paradossalmente sembra accompagnarsi un ansia riformatoria continua da parte dei vari governi che su succedono.

E non va affatto bene. Nella scuola per valutare riforme e cambiamenti servono anni, dunque è necessario che ci sia una certa continuità. 

Per concludere: i nomi dei “nuovi” dicasteri della Destra sono pieni di riferimenti fortemente ideologici. Cosa bisogna fare secondo te per essere incisivi nella critica?

Bisogna prendere queste parole, analizzarle e mostrarne la pochezza. Sull'istruzione possiamo aggiungere un elemento: come si giustifica che per la mancanza del tempo pieno una bambina o un bambino del Sud durante le elementari facciano un anno e mezzo di meno di scuola dei loro coetanei del resto della Penisola?  Prendiamo la “natalità”, aggiunta al ministero della Famiglia e delle pari opportunità: che senso ha parlare di questo tema se poi non investi nei nidi?