I Balcani, l'isola di Lesbo, le coste libiche. I tre punti caldi delle rotte migratorie verso l'Europa somigliano a buchi neri che risucchiano diritti e trattati internazionali. Luoghi di abusi e violenze, perpetrate non solo da “trafficanti di esseri umani” senza scrupoli, ma anche dalle stesse autorità europee. A raccontare le storie di chi prova ad attraversare questi luoghi sono stati giornaliste e avvocati riuniti oggi (mercoledì 14 ottobre) presso la sede centrale della Cgil, in occasione del convegno "Europa, migranti e richiedenti asilo. Per una svolta di civiltà", organizzato dalla fondazione Lelio e Lisli Basso, dall'associazione Magistratura democratica (Md) e dall'associazione per gli Studi giuridici sull'Immigrazione (Asgi), insieme ai sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil.

Sulla rotta balcanica è in atto “una forma di deportazione priva di qualsiasi base legale”, afferma il vicepresidente di Asgi Gianfranco Schiavone. Slovenia, Croazia e Bosnia sarebbero Paesi di transito, attraversati da persone provenienti da Pakistan, Siria, Iraq, Afghanistan. Per impedirne l'arrivo, sulla frontiera croata si ricorre a “pratiche violentissime”. Le persone vengono derubate, spogliate dei propri vestiti e gli si spezzano gli arti superiori – solo quelli, per consentirgli di tornare indietro sulle proprie gambe. E così rieccoli in Bosnia, il corpo segnato dalle torture. L'Italia era rimasta estranea a tutto questo fino a maggio 2020, data in cui ha rispolverato l'Accordo di riammissione siglato con la Slovenia nel 1996.

Un accordo che non sarebbe più applicabile dall'entrata in vigore del Regolamento di Dublino III (2013). Eppure, da qualche mese, è la polizia italiana che da Trieste consegna i migranti alla sua omonima slovena. E la polizia slovena a sua volta li mette nelle mani delle forze dell'ordine croate che li “scarica” in zone di confine. Senza, cioè, riconsegnarle ufficialmente alla Bosnia, per non compromettere l'immagine civilizzatrice dell'Unione europea. Tutto ciò avviene “tramite atti materiali, nel più completo svuotamento di legalità”, sottolinea Schiavone. La violenza di questa procedura è tutto meno che cieca: la si persegue allo scopo ben preciso di impedire che vengano avanzate richieste di asilo. Il motivo? I quattro milioni di persone che premono ai confini della Turchia sono “un terrore paralizzante per l'Unione europea”, spiega il portavoce Asgi. Perciò, si vuole dare il segnale di una chiusura totale, per non incoraggiare in alcun modo a percorrere la strada che da Lesbo giunge a Trieste.

Lesbo, punto di partenza della rotta balcanica, ma anche luogo in cui bruciano ancora le ferite dell'incendio divampato nel campo profughi lo scorso 9 settembre. Bruciano nel racconto di Annalisa Camilli, giornalista di Internazionale che nei giorni successivi all'incendio era a Moira, tra i resti di quello che avrebbe dovuto essere un hotspot di massimo duemila persone e che invece era arrivato ad ospitarne più di 20 mila. “Una tendopoli con interi settori privi di servizi igienici, acqua corrente ed elettricità”. Alzando lo sguardo dai container colorati, quelli atti ad accogliere i bambini, il cielo plumbeo intrecciato dal filo spinato. “Per proteggerli, si diceva”, ma in realtà per contenerli a tutti i costi in uno spazio degradante, divenuto ancora più pericoloso nei 176 giorni di lockdown imposti dal governo Mitsotakis. Nel nuovo campo, ricostruito in tempi record e già allagato dalle forti piogge, sono state ammassate le 8 mila persone rimaste sull'isola.

E poi c'è la Libia che, rispetto ai due poli della rotta balcanica, sembra volersi distinguere. Perché sulle sue coste torture e reclusioni fanno parte di un sistema ben più articolato. Le strutture detentive non servono solo a fermare i migranti, ma anche a “stoccarli”. A spiegarlo è Nancy Porsia, giornalista freelance. “Dopo un lungo periodo di prigionia, alcuni vengono fatti salpare alla volta dell'Europa. Poi la Guardia costiera libica li intercetta in mare e li riporta sulla terraferma, dove a quel punto vengono impiegati nei lavori forzati”. Un ufficiale ha ammesso di ricorrere ai pullman del ministero degli Interni libico per trasportare i migranti ovviando ai posti di blocco dovuti alla guerra. “Non è un caso isolato di corruzione”, precisa Porsia, “ma una dinamica sistematica, perché in Libia non c'è un apparato di sicurezza statale”, ma solo tante milizie diverse a cui sono affidati i compiti di repressione e gestione dei traffici di esseri umani.

Forme di sfruttamento orribili, da cui l'Italia non può dirsi aliena. Anche qui infatti i migranti diventano i lavoratori più sfruttati. “Un fenomeno non più circoscritto all'agricoltura o all'edilizia, ma esteso a molti altri settori produttivi”, spiega il segretario confederale della Cgil Giuseppe Massafra. Esternalizzati, impiegati in attività per loro natura frammentate sul territorio, i lavoratori migranti non sono sempre facili da aggregare. Per questo il sindacato “sta trasformando la sua attività, diventando un sindacato di strada”, spiega Massafra. “Le vertenze sul territorio ci aiutano a intercettarne i bisogni, a costruire insieme a loro nuove forme di rappresentanza e a rilanciare la battaglia per la tutela dei loro diritti”, conclude il sindacalista.