Giunti alla terza settimana, si cominciano a prendere le misure con la didattica a distanza. Il collegamento in streaming, attraverso varie piattaforme (zoom e we school sembrano le più utilizzate), consente un contatto diretto con studenti e studentesse, certo non garantendo quella normalità che qualcuno va inutilmente cercando, ma almeno quel minimo di continuità rispetto al lavoro svolto sino alla chiusura delle aule. Da qui la costruzione di un nuovo calendario, necessariamente ridotto rispetto quello seguito a scuole aperte, attraverso il quale fissare una cadenza settimanale che possa rappresentare per tutti un piccolo punto di riferimento in un momento in cui, per tutti, trovare un punto di riferimento diviene ogni giorno più difficile. 

Nessuno o quasi di noi insegnanti era pronto ad affrontare una simile situazione, e gli accorgimenti didattici adatti ai tempi si scoprono di volta in volta, cercando di vivacizzare l’incontro per esempio con inviti di partecipazione alla sessione rivolti a scrittori, giornalisti, musicisti, o agli stessi colleghi, anche della stessa scuola o dello stesso corso, preparando lezioni in compresenza, fissando un argomento comune tra le materie, per offrire una lezione dinamica e gradevole, allo stesso tempo sperimentando pratiche di insegnamento che potrebbero tornare utili anche domani.

Domani. Puoi inventare quello che vuoi, ma per i ragazzi il nodo rimane questo. Puoi invitare chi vuoi, ma durante lo streaming a un certo punto la domanda all’ospite di turno arriva puntuale: “Quando finirà tutto questo?”. Sono passate tre settimane, in realtà quasi un mese (le scuole sono chiuse dal 5 marzo), e i primi segnali di cedimento, dal punto di vista emotivo, cominciano a essere evidenti tra i nostri allievi. Bello vederli la mattina, darsi il buongiorno tutti insieme, i volti che si sovrappongono sullo schermo; ma l’espressione di quei volti raccontano molto, e i lunghi silenzi purtroppo eloquenti.

Da qualche giorno, una volta abbandonato il meeting, la sensazione di fare poco, di fare troppo poco, di dover fare qualcosa di più dopo un mese di clausura, si insinua rapido nell’animo. A questo si aggiunge l’impotenza nel raggiungerli tutti, perché qualcuno inevitabilmente rimane tagliato fuori, perché non ha il pc, non ha i giga a sufficienza, non ha una famiglia che li supporta nella maniera dovuta. Ma questo non deve scoraggiare, anzi bisogna insistere con loro, la giornata deve iniziare proprio da loro, cercando almeno di scambiare due parole al telefono, in attesa di trovare una soluzione concreta. Forse arriverà con i fondi del ministero, forse no. Nel frattempo, continuare a lavorare con gli altri compagni di classe, anche chiedendo loro aiuto per stabilire un minimo di rapporto con chi resta indietro, perché è anche così che si prepara il terreno per quando saremo di nuovo tutti insieme. Torniamo così al nodo, il nodo che stringe ognuno di noi: quando finirà tutto questo?

Nell’attesa azzardiamo una proposta, consapevoli che ipotizzare il giorno in cui potrà essere eventualmente messa in pratica sia ancora impossibile da stabilire.

Lo spunto arriva da una serie di associazioni, antropologi, psicologi dell’infanzia, genitori, insegnanti, che a vario titolo in queste ore hanno inviato petizioni e lettere ai sindaci, al ministero dell’Istruzione, a quello per le Pari opportunità e la famiglia, allo stesso presidente del Consiglio. I contenuti della richiesta sono ben riassunti nell’articolo di Chiara Saraceno apparso sulla prima pagina del quotidiano La Repubblica domenica scorsa, dal titolo “Un’ora d’aria per i bambini”. Scrive la sociologa:

Ci sono genitori che chiedono che anche i bambini abbiano almeno lo stesso diritto di uscire dei cani, rispettando rigorosamente le norme di distanziamento sociale. Il diritto 'all’ora d’aria' è oggetto di una richiesta di genitori di ragazzi con disabilità psichiche, ma non solo, perché questi ragazzi, a cui è stata interrotta la routine quotidiana, a volte diventano violenti. Questi genitori lamentano anche l’assenza di previsione di attività e di sostegni specifici da parte della scuola che, oltre a lasciare le famiglie isolate, rischia di innescare un processo irreversibile di peggioramento delle capacità dei ragazzi.

Ecco, da questa prospettiva, credo che oggi il nostro compito, il compito di noi insegnanti, sia anche quello di cominciare a immaginare come accorciare le distanze, pur mantenendole alla sicurezza sanitaria richiesta dal periodo, un periodo ancora piuttosto lungo, che dunque necessita di graduali fasi di avvicinamento. Tra queste, laddove possibile, potrebbe esserci la riapertura degli spazi esterni delle scuole. Per dirla meglio, quelle scuole che hanno degli spazi aperti adeguati, potrebbero pensare come poterli organizzare partendo dalla disponibilità dei docenti, nel ruolo di dipendenti pubblici destinati alla loro gestione e  al controllo del rispetto delle regole, selezionando pochi studenti alla volta, volendo accompagnati anche dai genitori, tenendoli per un’ora in un luogo aperto ma dentro l’edificio scolastico, considerando anche il prossimo arrivo della bella stagione.

Naturalmente si tratta di una proposta da calibrare in base al grado (una scuola primaria non è un liceo), e gli accorgimenti dovrebbero essere ben indicati da un ennesimo decreto ministeriale, sulla base di quanto accade quando andiamo a fare la spesa nei supermercati. In questo caso, si tratterebbe di una responsabilità affidata al mondo della scuola, coadiuvata dalla collaborazione delle famiglie, un altro esperimento di cui fare tesoro una volta rientrati in classe.

Oltre che pensare ai compiti, ai voti, agli esami, alle promozioni o alle bocciature (il maestro Alberto Manzi, indiscusso precursore della didattica a distanza, immagino si stia rigirando nella tomba), forse è arrivato il momento di riflettere su come alleggerire questa reclusione forzata dei nostri studenti, dei nostri figli, che ogni giorno diventa sempre più pesante da sopportare, per tanti motivi. Noi siamo i colpevoli, e loro non hanno meritato tutto questo.