Dopo gli avvenimenti del 7 ottobre scorso abbiamo avvertito la necessità di una riflessione. La discussione è complessa e affrontarla per tifoserie alimenta la polarizzazione. Il tema è quello della radicalizzazione fondamentalista delle masse in medio oriente e delle lenti con le quali il cosiddetto mondo occidentale ha preteso di leggere alcuni fenomeni volendoli iscrivere al paradigma della democrazia. Le “primavere arabe”, da questo punto di vista, hanno rappresentato una cartina di tornasole. La lettura di certi fenomeni ha forzato l’interpretazione di alcuni movimenti che nei loro “catechismi politici” non avevano solo elementi programmatici di democrazia.

Le primavere arabe hanno messo in discussione i vecchi sistemi non più sostenibili ma non sono state in grado di risolvere né le questioni sociali né quelle economiche mentre le ineguaglianze si sono ulteriormente aggravate. Inoltre, la repressione violenta degli apparati governativi, ha generato nuovi conflitti in Algeria, in Libano e in Iraq ed alimentato la crescita dell'Isis e lo sviluppo delle guerre in Yemen e Siria. Ha portato a cambiamenti permanenti diversi da zona a zona. Gli stati del Levante, in particolare Siria e Iraq si sono disintegrati, forse in modo irreversibile. Le monarchie del Golfo hanno intrapreso piani di vasta portata di cambiamento economico e sociale per allontanare il malcontento. L'Egitto si è ritirato nell'autoritarismo militare e nella guerra agli islamisti, mettendo a rischio la sua futura stabilità. La caduta dei dittatori, da Saddam Hussein a quelli delle primavere arabe, ha sancito il tramonto dell’era post-coloniale e dello Stato-Nazione che conteneva con metodi autocratici i tribalismi e i settarismi.

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La mancanza di identità nazionali radicate e la persistenza al potere di leadership tollerate da una parte della popolazione con forzata quiescenza, hanno portato alla decomposizione delle identità all’interno dei confini statali e alla loro ricomposizione sulle linee pre-esistenti alla creazione degli Stati (tribù, regioni, clan, etnie) dando vita a una ristrutturazione sociale radicata su poteri a forte base localistica. I popoli hanno deciso di spogliarsi di pezzi di storia comune nel tentativo di recuperarne un’altra solo apparentemente archiviata. Questa storia in Libia, come in Iraq e in altri Paesi dell’area, è quella delle regioni e delle tribù a cui oggi si assommano una serie di nuovi attori: milizie e città-Stato riorganizzate su base locale.

La Tunisia e l’Egitto ci hanno insegnato che non vi è possibilità di condurre a buon fine una rivolta popolare, tanto meno una rivoluzione, se non esistono condizioni geopolitiche internazionali che ne garantiscano il terreno propizio di affermazione e se non esistono movimenti in grado di incanalare il disagio popolare verso un reale processo politico in grado di rappresentarne le istanze. E così è stato per i giovani che dieci anni fa erano scesi in piazza sperando che da quelle rivolte potesse nascere una nuova grande rivoluzione per il mondo arabo.

C’è stato un tempo, invece, in cui i movimenti di liberazione in Medio Oriente sono stati protagonisti del processo di decolonizzazione che, forzando i blocchi della Guerra Fredda avevano immaginato a Bandung la “Terza Via” dei paesi “non allineati”. La lunga decolonizzazione aveva portato anche ad una interessante declinazione dell’Islam secondo i principi del socialismo panarabo. Alcune di queste realtà avevano assunto principi importanti della cultura europea, tra tutti quello della laicità e il rifiuto della teocrazia. L’esempio è la Turchia di Ataturk che rinasce dalle ceneri dell’Impero Ottomano. La teocrazia in Iran e la teoria della Repubblica islamica arriveranno dopo.

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Le nuove geografie, territoriali e politiche, seguite al crollo dell’Unione Sovietica hanno investito anche il Medio Oriente e i partiti che in qualche modo si erano ispirati idealmente ad alcune forme di socialismo panarabo, fra tutti quello Baath. Iraq, Siria, Afghanistan, sono alcuni dei paesi nei quali gli Stati Uniti hanno sperimentato la palestra del fondamentalismo jihadista in chiave antisovietica. Emblematico il caso dei talebani - finanziati a danno dei mujhaeddin del Comandante Massud nella guerra contro l’invasione sovietica - divenuti poi i protagonisti del terrorismo internazionale del nuovo millennio.

La rottura dei due blocchi non si è risolta con l’estensione della democrazia in quella parte di mondo da parte del cosiddetto campo occidentale che anzi ha impattato contro e ha costruito l’ideologia dello scontro di civiltà che ha dominato le relazioni politiche internazionali post 11 settembre 2001. La teorizzazione dell’esportazione della democrazia con le armi ha fatto il resto e ha radicalizzato ancor di più le masse arabe. Questa radicalizzazione investe anche l’Europa e la fragilità con cui ha costruito e gestito il fenomeno dell’immigrazione. L’esplosione del terrorismo in Francia, ad esempio, affonda le sue radici direttamente nel suo passato coloniale e nel modo in cui i giovani di seconda e terza generazione delle banlieu sono esclusi dal perimetro dei valori della Repubblica.Questo vale anche per gli immigrati di seconda e terza generazione nelle periferie inglesi

Dopo questa necessaria premessa possiamo provare a ragionare sull’oggi. Hamas non è l’Olp, non è Fatha, per la caratterizzazione di radicalizzazione religiosa che ha reso visibile nella gestione degli attacchi terroristici del 7 ottobre: odio razziale, sterminio degli ebrei in quanto tali, crudeltà esibita.

La globalizzazione, la democratizzazione dell’informazione sono fenomeni che appartengono a questi giorni.La rete globale del commercio, la comunicazione di idee, di conoscenza, di educazione e di propaganda, avvengono attraverso le tecnologie. Daesh è un fenomeno in cui ci sono stati chiari i messaggi comunicativi su rete globale di scene cruente, volte alla radicalizzazione delle posizioni inviate come messaggi. La propaganda è passata sotto gli occhi di tutti. La jihad, la glorificazione dei martiri, la lotta agli infedeli sono diventati strumenti di propaganda globale. Inoltre evidentemente, la povertà e le diseguaglianze, sono elementi fondamentali per capire il processo di radicalizzazione. Dalla Tunisia alla Libia all’Afghanistan, alla Siria, all’Iraq. Anche in Egitto, la repressione di Sisi è un elemento della radicalizzazione di organizzazioni come i Fratelli Musulmani. Spinte xenofobe e islamofobe in occidente sono sempre elementi utili, inoltre, alla radicalizzazione. Il regime di Erdogan e la repressione dei curdi sono elementi della radicalizzazione. Il conflitto sunniti-sciiti, o se si preferisce Iran /Arabia Saudita è un elemento di radicalizzazione come la situazione libanese.

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Internazionale

Gaza, servono corridoi umanitari

Oggi crediamo che rispetto a questi titoli ci sarebbe bisogno di un’analisi più compiuta per orientare anche le scelte di una sinistra che riesca ad interpretare le dinamiche internazionali nella loro dimensione. D’altro canto anche la radicalizzazione del governo Netanyahu con la scelta di privilegiare gli insediamenti in Cisgiordania contro il diritto internazionale e la presenza dei partiti ultrareligiosi nel governo hanno oggettivamente indebolito ulteriormente l’Autorità palestinese e la scelta di “strizzare l’occhio” ad Hamas in funzione anti Anp e Fatah si sono dimostrate sciagurate. Hamas nasce come movimento radicale islamista (anche in funzione anti Fatah) per “ricacciare gli ebrei a mare” e distruggere lo Stato di Israele.

C’è stato un tempo in cui la politica estera italiana, seppure inserita saldamente nel principio della difesa di Israele e nel diritto alla sua sicurezza, iscriveva alla sua azione politica la “causa del popolo palestinese”. Era il cosiddetto “Lodo Moro”. Mentre a sinistra, sia nel Pci che nel Psi, avevano realizzato politiche che guardavano al raggiungimento di una soluzione politica secondo il principio “Due popoli, due Stati”. Dal Pietro Nenni di “salviamo i Kibbuz”, alle politiche di riconoscimento del ruolo dell’Olp da parte di Berlinguer e di Craxi.

Oggi, invece, emergono alcune posizioni antisemite, purtroppo anche a sinistra, legate a mostri che non muoiono e a negazionismi storici per negare il diritto di Israele a esistere. Quanti Gesù Cristi palestinesi si incontrano oggi sui social? O immagini trionfanti di parapendii?

Mentre, rispetto a quanto sta accadendo sotto i bombardamenti indiscriminati, come denunciato dall’Onu, alla popolazione civile di Gaza solo alcune voci, tra cui quella della sinistra israeliana e di Haaretz, in particolare, giustamente sottolineano come una democrazia non agisca secondo il criterio della vendetta ma per la necessità della sicurezza.

Solo questo potrà, a nostro giudizio, aiutare il processo di pace e non portarci su un baratro come quello che si prefigura con l’allargamento del conflitto: coniugare le ragioni della pace con quelle di un laicismo che riesca a ritornare protagonista al di là della tragicità degli eventi di questi giorni.