L’esercito israeliano intensifica i bombardamenti sulla striscia di Gaza, mentre proseguono le mediazioni da parte dei Paesi dell’area per la liberazione degli ostaggi in mano ad Hamas e alle Nazioni unite si consuma la frattura tra Tel Aviv e il segretario generale Antonio Guterres.

In questo scenario, a 18 giorni dall’attacco di Hamas, aumentano i timori di un allargamento della guerra. Un’espressione ripetuta più volte nelle ultime settimane le cui implicazioni, non sempre chiare, ci vengono illustrate da Lucio Caracciolo, analista geopolitico direttore della rivista Limes, il quale inizia precisando che “in questo momento esiste un fronte che è quello di Hamas contro Israele e un altro, ancora tiepido, che vede invece Hezbollah contro Israele”.

I due contendenti

Il tutto deve essere inquadrato in un contesto regionale: “Ci sono due poli, Iran e Israele, attorno ai quali si fanno e disfano alleanze e coalizioni – prosegue -. Sono nemici assoluti, ma in qualche modo indispensabili l’uno all’altro. L’Iran è fondamentale per Israele perché, nemico con la "N" maiuscola, si sta dotando della bomba atomica e quindi è una minaccia esistenziale che giustifica molte cose, tra le quali l’appoggio americano a Tel Aviv".

Inoltre, continua Caracciolo, "per l’Iran Israele è un pretesto per intese nel mondo arabo e l’acquisizione di un’influenza sempre maggiore nella regione. L’impero iraniano, che comprende Iraq, Siria, il Libano di Hezbollah, Afghanistan occidentale, costituisce tutto un sistema che usa i nemici arabi di Israele proprio in funzione dell’impero persiano. Israele ha bisogno dell’Iran per stringere l’intesa con gli Stati uniti e giustificare le proprie misure di sicurezza, come anche il possesso dell’arma atomica anche se non dichiarata”.

© Marco Merlini / Cgil
© Marco Merlini / Cgil
© Marco Merlini / Cgil Lecce, 22 settembre 2019 Officine Cantelmo ‘Il mondo cambia, l’Italia no. A meno che…’ Lectio magistralis di Lucio Caracciolo

Caracciolo si addentra poi nelle ipotesi di allargamento del conflitto, partendo dal presupposto che se la battaglia di Gaza diventa totale è quasi inevitabile che entri in campo Hezbollah, espressione libanese dell’Iran, “perché non è che i proxies siano completamente allineati sullo sponsor, si fanno anche gli affari loro, ma in questo caso, dal punto di vista strategico, Hezbollah vuole dire Iran”.

Più di un fronte

“L’allargamento potrebbe riguardare, e in parte già riguarda – afferma il direttore di Limes -, anche il fronte cisgiordano, dove c’è l’altra branca palestinese, che però oramai non conta quasi nulla, vale a dire quella dell’Anp di Abū Māzen, tenuta in piedi da Israele, Europa e Usa per evitare il collasso palestinese e anche per impedire che Tel Aviv debba accollarsi la gestione dei territori occupati. Già qui parleremmo di un allargamento al primo anello. Però Hezbollah e Hamas sono legati all’Iran (anche se Hamas lo è di più al Qatar), mentre chi è legato solo ai propri nemici che li tengono in piedi per evitare guai, cioè i cisgiordani dell’Anp, sarebbero travolti da un’ulteriore espansione dei coloni”.

Il direttore di Limes ci spiega poi che nell’attuale crisi il possibile allargamento avverrebbe se i palestinesi di Gaza sfondassero la frontiera con l’Egitto, entrando nel Sinai, “creando quindi il grosso problema per gli egiziani di gestire i militanti di Hamas in particolare, considerati troppo numerosi per un Paese come quello egiziano e troppo vicini ai fratelli musulmani, da sempre nemici del presidente al-Sisi”.

C’è poi la Cisgiordania. Se fosse coinvolta in maniera totale dalla guerra, molti profughi si sposterebbero verso la Giordania, “che ne ha già troppi e non ne vuole altri – fa notare Caracciolo-, e inoltre la componente beduina non ama particolarmente i palestinesi. Ma soprattutto se l’Iran volesse spendersi di più per Hezbollah e Hamas, cosa che però non credo anche se teoricamente sarebbe possibile, potrebbe provocare una reazione complessiva, con Israele che attaccherebbe l’Iran e gli Usa che dovrebbero intervenire in favore di Tel Aviv. E preferisco fermarmi qui”.

Cosa c'è sul piatto?

La posta in gioco per Israele è la sopravvivenza, ci spiega Caracciolo precisando che non ci troviamo davanti a una guerra di religione, “perché Israele è un paese con 7 milioni di ebrei, un paio di milioni di arabi e altre minoranze: in un contesto arabo musulmano avverso non potrebbe darsi una prospettiva strategica e invece la sua strategia è la sopravvivenza giorno per giorno con tutti i metodi possibili. La Palestina non è uno Stato, i palestinesi non sono affatto uniti (spesso, in maniera neanche tanto coperta, si fanno la guerra tra loro), visto da una parte c'è Hamas e dall’altra l’Anp che ha una strutturale inimicizia con Hezbollah".

Insomma, "ci sono quindi popoli che si richiamano all’identità palestinese ma che sono in territori diversi, sotto controllo delle potenze avverse e, se probabilmente qualcuno andasse a chiedere a un palestinese cosa vorrebbe, risponderebbe essere cittadino israeliano per godere dei diritti, seppur limitati, degli arabi israeliani, piuttosto che sottostare all’occupazione".

Anche perché "l’alternativa non esiste – argomenta l'analista. Il riconoscimento della Palestina è una chimera, perché Tel Aviv non accetterà mai di mollare il controllo del territorio tra il Mediterraneo e la valle del Giordano per motivi di sicurezza e, nel contempo, è molto difficile che possa accettare altri milioni di arabi che abbiano una parità di diritti con i cittadini israeliani, contraddicendo teoria e pratica dello Stato israeliano. Quindi siamo in una impasse totale”.

Ci sarebbero poi le partite energetiche che riguardano il Mediterraneo orientale, Israele, Cipro, il Libano, ma Caracciolo sostiene che non è questo l’oggetto del contendere: “Ci sono anche le partite finanziare, nelle quali gli attori sono il Qatar e gli Emirati arabi uniti che usano finanziare a destra e sinistra per avere un certo grado di sicurezza e perché non hanno risorse umane militari per difendersi, ma tutto questo non è centrale”.

È evidente che, allargando lo sguardo e non dimenticando che c’è stata un’aggressione russa dell’Ucraina con una guerra ancora in corso, oggi ci troviamo davanti a una trasformazione degli equilibri internazionali. “L’indebolimento degli Stati uniti, che non possono e non vogliono occuparsi di tutto e non hanno più la potenza e la credibilità di un tempo, ha aperto la possibilità ad attori che non sono grandi potenze di giocare partite fino a ieri impensabili – conclude il direttore di Limes -. Mancando il perno sufficientemente credibile e disposto a spendersi c’è una sorta di tana libera tutti e dunque possiamo attenderci cose sino a ieri impensabili”.