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G. è un giovane israeliano che vive a Roma e lavora nel mondo dell’arte e della cultura e dopo molte resistenze personali, lo scorso mese, è tornato per alcune settimane a Tel Aviv, la sua città natale dove continua a vivere la sua famiglia. Siamo amici da qualche tempo e al suo ritorno gli chiedo se possiamo fare un’intervista per raccontare come la capitale israeliana sta vivendo la guerra in corso a Gaza. Uso tatto e prudenza e sono io a proporgli l’anonimato perché so che per lui, consapevole del genocidio in atto e per questo profondamente addolorato, è un tasto dolente del quale fatica a parlare. Lui accetta.
I contrasti
“A Tel Aviv c'è sempre questo clima del ‘è tutto ok’ – mi dice -, tutti i lavorano e tutti vanno di fretta. Il ritmo è molto più veloce che in Europa. Molto molto più veloce di quanto io veda a Roma. Lo vedi da come la gente cammina nelle strade, da come guida, hanno fretta di arrivare dal punto A al punto B. È così da sempre e mi dà un'ansia ogni volta che ci torno”.
G. ammette di essersi divertito a Tel Aviv: “Ho mangiato bene, ho visto amici meravigliosi, il mare sta lì davanti a te, è davvero un bel Paese. Ci si diverte senza pensare a quello che sta accadendo, ma poi tornavo a casa a dormire, mi mettevo a letto e i pensieri tornavano”.
“Quello che voglio dire è che continua a esserci gioia di vivere anche se c'è la guerra, anche se accade quello che vediamo noi nei telegiornali, anche perché lì invece non sempre si vede fisicamente la guerra. Ci sono adesivi delle persone rapite da Hamas, ma è una dichiarazione politica. Questa è una cosa che fatico a capire perché loro stanno manifestando contro Netanyahu, contro il governo, ma per fare ritornare gli ostaggi. È come se il motivo per il quale manifestano sia sbagliato alla base. È bene che loro manifestino, ma per cosa?”. G. mi dice che, se anche qualcuno si presenta in strada con un cartello che chiede lo stop al genocidio, subito si accodano e prevalgono manifestanti che chiedono solamente la liberazione degli ostaggi nelle mani di Hamas.
La paura
Poche ore prima della nostra intervista è giunta la notizia di un attacco terroristico su di un autobus a Gerusalemme che ha provocato la morte di sei persone. Chiedo quindi a G. del sentimento di paura per gli israeliani. Mi risponde esemplificando: “Sei su un bus e salgono due ragazze coperte, musulmane, e la prima cosa che pensi (anche la seconda) è ‘come esco di qua?’. Poi vieni qui a Roma, sali sul bus ed è tutto ok, non ti importa niente perché ognuno è semplicemente un’altra persona e non c'è un odio così grande.
Sui mezzi pubblici ci sono i cani accompagnati dai poliziotti. Quasi in ogni tram ce n’è uno. I controlli sono proprio sempre serratissimi, mai viste così tante telecamere in strada, mai, mai così. Questo per me era molto stressante, tanto che spesso preferivo tornare a casa a piedi”.
La disinformazione non basta a giustificare
G. insiste sulla mancata informazione: “Loro non vedono quello che vediamo noi nei notiziari, quello che accade a Gaza. Ci sono notizie che possono arrivare via social, ma ancora l’informazione censura e disumanizza. Nei giornali israeliani c’è sempre questa idea che le vittime sono solo gli israeliani. I palestinesi non li vedi. Ogni persona che incontravo mi chiedeva preoccupato: "Ma stai lì a Roma? E com'è la situazione lì a Roma?". Sto bene, rispondevo, a Roma non ho le bombe sopra la testa. Come israeliano non è che io vada in giro indossando la bandiera del mio Paese e io non ho mai avuto problemi per la mia nazionalità”.
G. ricorda solamente un episodio spiacevole quando viveva in Francia: “Un tizio mi ha buttato nel fume e quando mi ha ripescato mi ha chiesto se allora ero pro Israele o pro Palestina...preferisco non tradurre la risposta che gli ho dato. Ma è stata l’unica volta”.
E ancora: “Quello che sta accadendo a Gaza non si sente, ma questo non legittima il modo in cui gli israeliani giustificano gli attacchi nella Striscia, i rischi che corrono i soldati israeliani. Viene mostrata solamente la loro versione. Io non ci posso stare”.
Vedo che i suoi occhi sono lucidi, mi sento in colpa per averlo obbligato a parlare di un nodo molto doloroso quando vedo le lacrime che scendono sul suo volto, ma che non alterano il tono del suo racconto. “Sono cresciuto credendo che la loro fosse la verità, ma quando ho finito le scuole superiori e sono uscito da Israele, le informazioni che ho ricevuto in Europa mi hanno fatto scoprire che esiste anche l’altro lato della questione. Anche attraverso i social sono sempre aggiornato su quanto sta accadendo, ma lì sono ciechi, non vedono niente e, anche se vedono, trovano una ragione perché tutto continui a funzionare allo stesso modo”.
Identità e di identificazione
“Studiare le lingue è una buona cosa perché mi ha permesso di colmare il divario tra l’israeliano che è in me e le persone dei Paesi nei quali ho vissuto – mi dice -. Così, quando ho vissuto in Francia, ho tentato di prendere il passaporto francese. Ma io non sono francese, lo stesso non ero svizzero quando ho vissuto in Svizzera. Mi pongo la domanda: ‘Io, fondamentalmente, cosa sono?’. Poi sono arrivato in Italia, ho provato a entrare in una sorta di altra identità e non è stato facile decidere se tornare indietro o entrarci”. Conveniamo entrambi che forse essere apolide non è poi tanto male.
Anche nella sua famiglia G. ha incontrato un muro, la mancanza di presa di coscienza della scomoda realtà, e la sua posizione di condanna per il genocidio in atto è stata bollata come estremismo: "Ci sono stati momenti in cui ho preferito tacere perché sapevo chi avevo di fronte, non perché temessi per la mia vita, ma perché già sapevo che il confronto sarebbe stato inutile e come si sarebbe svolto. Poi decidevo di non rincontrare mai più quelle persone”.
“Quando gli altri sanno cosa pensi – prosegue –, l’ambiente intorno a te cambia anche se provano comunque a essere gentili con te. È capitato che una ragazza al bar mi sentisse parlare della situazione a Gaza e per questo uscisse dal locale. Io dico quello che penso, so come dirlo, so come proteggere le mie idee, anche perché fondamentalmente io parlo di diritti umani. Loro invece parlano sempre in termini di ‘la mia vita o la loro vita’”.
Il dolore è evidente quando mi dice: “Succede che mi vergogno, sì, mi vergogno di essere israeliano. Non voglio dovere specificare tutte la volte da che parte sto e allora capita che mi chiedano da dove vengo e io risponda ‘dalla Francia’, così la conversazione può proseguire normalmente”.
Siamo solamente esseri umani
Cerchiamo di alleggerire la conversazione e iniziamo a parlare dell’arricchimento che può dare la commistione di culture, il viaggiare, il conoscere modi di vivere diversi dal proprio. Lui mi dice che “c’è una bella cultura araba in Israele, ma gli arabi sono considerati cittadini di serie B. Quando studiavo alla scuola d’arte era molto interessante interagire con loro, nonostante non avessimo una lingua comune”.
“Erano come stelle nei miei occhi e io nei loro, perché era così semplice essere solamente esseri umani. Ci sono momenti magici, ci sono momenti in cui vai al mercato, compri qualcosa e il signore che te lo ha venduto, con un accento molto arabo, dice ‘You should find a girl, you should marry her’, ‘potresti trovarti una moglie e sposarla’, aggiungendo che l’unico modo che hai per risolvere i problemi è l’amore”.
Un momento di silenzio, come se G. rivedesse quelle immagini. E poi conclude: “Le voci come la mia in Israele sono comunque ancora minoritarie, ma può essere che un giorno crescano. Inshallah.”