Immedesimiamoci per un istante. Siamo a Gaza, siamo un gazawi. Non possiamo scappare: i confini sono chiusi. Non possiamo difenderci: non abbiamo armi né scudi. Non possiamo ripararci: le case vengono sbriciolate dai raid, le scuole non sono più rifugi, gli ospedali sono diventati obiettivi. Possiamo soltanto attendere, inesorabili, che la morte ci raggiunga. E allora domandiamoci: se fossimo al loro posto come ci comporteremmo? Quale forza ci resterebbe?

È questo il cuore del dramma che oggi si consuma nella Striscia. Non c’è simmetria, non c’è “conflitto tra due parti”. C’è un popolo intrappolato e un esercito invasore che avanza coi carri armati, cancellando la vita metro dopo metro. E c’è un mondo che guarda, al massimo balbetta parole di circostanza, e poi gira la testa.

Tutti responsabili. L’Occidente, che continua a fornire armi e legittimità a Israele. Gli Stati Uniti, che parlano di mediazione ma protegge Netanyahu, lasciandogli carta bianca. L’Europa, che si limita a contare i morti e a invocare “moderazione” mentre finanzia e commercia con chi bombarda. I Fratelli Arabi che non aprono i confini e non accolgono i fratelli veri. E anche noi che non ci muoviamo e restiamo afoni, inermi e dunque responsabili.

Perché questo genocidio si compie anche e soprattutto grazie all’inerzia collettiva. Perché non basta indignarsi a parole: servono atti concreti. Un embargo immediato sulle armi, la sospensione degli accordi economici, la rottura delle relazioni con un governo che ha scelto la deportazione come strategia. Tutto il resto è complicità.

Se fossimo a Gaza, sotto le macerie, lo capiremmo subito: chi resta in silenzio non è innocente. Chi continua a stringere mani insanguinate non è neutrale. E allora l’unica domanda onesta che ci resta è: quanto tempo ancora vogliamo restare complici, prima che la storia ci giudichi come corresponsabili di questo sterminio?