L’amministrazione Bush lascia una pesante eredità al nuovo presidente degli Stati Uniti. Non si tratta soltanto della crisi finanziaria, innescata dal tracollo dei mutui subprime e presto propagatasi a livello globale. Il pesante deficit commerciale Usa, che ad agosto ha raggiunto nei confronti della sola Cina la cifra stratosferica di 25,33 miliardi di dollari (pari a 18 miliardi e 809 milioni di euro) ha infatti portato lo scorso anno alla distruzione di 5,6 milioni di posti di lavoro. A dirlo è l’Economic Policy Institute (Epi), un centro studi vicino al partito democratico, in uno studio pubblicato nei giorni scorsi.

Secondo Robert E. Scott, direttore dell’Epi e autore della ricerca, “mentre le disgrazie di Wall Street concentrano l’attenzione nazionale, la situazione a Main Street (letteralmente la via principale, vale a dire l’economia reale) continua a deteriorarsi”. Oltre il 70 per cento di questi 5,6 milioni di impieghi sono andati persi nell’industria manifatturiera e in particolare nei settori automobilistico e tessile. Decine di fabbriche e di uffici sono stati trasferiti nei paesi dell’Estremo Oriente o in Messico, dove il costo del lavoro è minore, senza che il governo adottasse alcun provvedimento per difendere l’occupazione nazionale. Un altro effetto negativo dell’indebolimento del mercato del lavoro è costituito, secondo l’Epi, da un abbassamento dei salari statunitensi. Chi è stato licenziato da un’impresa manifatturiera, infatti, ha trovato spesso un altro impiego in settori, come i servizi alla persona o il commercio, dove i salari sono in media dell’11-13 per cento più bassi che nell’industria. Molti posti che assicuravano un livello di vita dignitoso, insomma, sono stati sostituiti da quelli “low cost”, con paghe basse e tutele inesistenti.

La distruzione di occupazione ha riguardato un po’ tutti gli Stati, ma è stata particolarmente pesante in California, Texas, New York, Michigan e Ohio. Nel primo sono andati in fumo, l’anno scorso, oltre 696 mila impieghi, e altri sono a rischio a causa della grave situazione nel settore finanziario. Oltre 405 mila posti sono spariti in soli dodici mesi nel Texas, dove è nato il presidente George W. Bush. Poco meno pesante il bilancio nello Stato di New York, dove 326 mila persone sono state licenziate nel 2007. Anche in questo caso il numero potrebbe aumentare in misura considerevole alla fine dell’anno: solo nel settore finanziario, ai 100 mila posti persi nel primo semestre del 2008 potrebbero presto aggiungersene altri 50 mila dopo il crollo di banche d’affari come Lehman Brothers e Merrill Lynch.

Per di più una forte percentuale delle entrate fiscali della Grande Mela, pari a circa il 10 per cento, proveniva dalle operazioni di Wall Street: il tracollo della finanza rischia dunque di aumentare il già considerevole deficit dell’amministrazione cittadina (alcune stime parlano di un disavanzo pari a due miliardi di dollari entro il 2010, vale a dire quasi un miliardo e mezzo di euro), con conseguenti esuberi fra il personale pubblico. Nel Michigan – la cui capitale Detroit è stata la culla dell’industria automobilistica a stelle e strisce – i 319 mila posti cancellati nel solo 2007 equivalgono al 7,5 per cento del totale dell’occupazione in questo Stato: si tratta, in percentuale, della maggiore perdita di impieghi registrata negli Usa a livello statale.

Anche l’Ohio ha pagato un pesante tributo, perdendo l’anno scorso 303 mila posti di lavoro. La lista dei licenziati rischia anche qui di allungarsi ulteriormente nel 2008: entro la fine di quest’anno, infatti, dalle parti di Cleveland, ex capitale del pneumatico, chiuderà i battenti uno stabilimento di General Motors specializzato nella produzione di Suv. Dal canto suo, Ford ha annunciato il licenziamento di 4.200 dipendenti, gran parte dei quali nell’Ohio e nel Michigan. Le cifre fornite dall’Epi per il 2007 confermano un’emorragia di posti di lavoro, soprattutto nell’industria manifatturiera, che si è acuita da quando è divenuto presidente George W. Bush. Secondo i dati dell’ufficio federale per le analisi economiche, dal 2000 – anno in cui Bush si è insediato alla Casa Bianca – al 2005, le multinazionali Usa hanno tagliato nella madrepatria oltre due milioni di posti di lavoro, mentre quelle di origine estera hanno licenziato 500 mila persone. Fra queste ultime spicca il gruppo tedesco Daimler, che a metà ottobre ha annunciato che chiuderà alcuni stabilimenti negli Stati Uniti e in Canada, mandando a casa 3.500 dipendenti e trasferendo la produzione in un nuovo impianto in Messico.