In occasione delle elezioni europee del 2024 il tema bellico ha assunto un peso notevole per il voto di molti cittadini di ogni Stato membro, di coloro che decideranno come votare anche valutando le posizioni assunte dai governi, dai partiti politici e dai singoli candidati circa le guerre in corso e le politiche che l’Unione dovrebbe adottare in materia.

In Italia nei programmi elettorali le posizioni dei partiti vanno da coloro che chiedono lo stop immediato all’invio di armi agli Stati in guerra come Ucraina e Israele, a chi si pronuncia per la creazione di un esercito europeo, da chi vuole aumentare le spese militari a chi chiede norme molto più severe per l’export delle stesse.

Il ruolo delle crisi

Fabrizio Coticchia, professore ordinario di Scienze politiche e internazionali all’Università di Genova da noi interpellato sottolinea che tendenzialmente per le elezioni i temi di politica estera non sono così cruciali come i temi di politica interna ed economici, o come l’immigrazione. Allo stesso tempo, però, “quando ci sono delle crisi rilevanti, come quelle ora in essere e tra loro collegate, anche i fattori internazionali giocano un peso e un ruolo. Lo vediamo anche nella modalità con la quale i partiti stanno elaborando la loro campagna elettorale anche rispetto al tema della pace”. 

“Dall’Europa purtroppo – prosegue – la guerra non se ne è mai andata, come vediamo in Ucraina, nel Caucaso o nei Balcani. Ci sono però alcune novità: il ritorno della guerra di conquista territoriale, come nel caso della Russia e il ritorno a una competizione accesa tra grandi potenze. Sul piano mondiale abbiamo guerre civili devastanti e cruciali, come quelle del Sudan o del golfo di Guinea. C’è poi il conflitto in Palestina con un numero di morti molto elevato. Infine abbiamo l'arretramento della democrazia e questo avviene anche in Europa, basti pensare al caso ungherese”. 

C’è poi la crisi dell’egemonia statunitense. “Nel caso di Israele vediamo che gli Stati Uniti hanno difficoltà a imporre in maniera chiara la propria influenza. Tutte queste crisi hanno effetto sulle ondate migratorie, che rappresentano un fattore centrale per spiegare il successo dei partiti della destra radicale. Le minacce vengono viste in modo molto diverso dai Paesi europei e queste diversità riguardano le scelte dei governi, ma anche l'opinione pubblica europea. C’è tutta una serie di proteste nelle università nei confronti dell'attacco israeliano a Gaza. Questo può avere un ruolo dal punto di vista elettorale, insieme a molti altri fattori”.

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Le possibili virate

Sarà però da verificare se l’esito elettorale potrà davvero modificare le politiche europee relative a guerre e difesa, nei casi in cui vincano le destre o le sinistre, anche in considerazione dei legami con la Nato. Coticchia parte dal presupposto che, secondo i sondaggi, “ci sarà sicuramente una crescita dei partiti di destra, ma è difficile pensare a un governo dell'Unione europea senza liberali e socialisti. C’è il tentativo da parte di alcuni attori, guidati proprio da Giorgia Meloni, di spostare l'asse dell'Unione verso destra, cosa nei fatti già avvenuta per i contenuti delle politiche. Un esempio è quello delle politiche migratorie con l’esternalizzazione della sicurezza europea e gli accordi con Stati che non rispettano i diritti umani”.

Per il professore l’esito elettorale, in ogni caso, non altererà i rapporti con la Nato e lo stesso vale per la politica di difesa europea, perché anche i Paesi e i partiti di destra in Europa sostengono la politica di difesa europea e la partecipazione alla Nato: “Le elezioni europee magari potranno alterare la bussola di alcune politiche europee, ma non vedo al momento lo spazio per un particolare cambiamento radicale”.

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La tentazione dell’esercito comune

C’è poi da valutare la capacità di attrazione che potrebbe esercitare su elettori di varia estrazione politica l’ipotesi di avere un esercito comune europeo, come si legge nei programmi di alcuni parti. Ma Coticchia, esperto in materia, esclude qualsiasi prospettiva simile a breve termine, precisando che bisogna distinguere tra una politica di difesa europea e un esercito europeo: “L'Unione europea, nella sua costruzione, ha seguìto una logica di mercato piuttosto che di sicurezza. La minaccia esterna è stata sempre ridotta dalla presenza di un altro attore, cioè della Nato. La difesa territoriale comune non è prevista nello stesso trattato europeo, ci si limita alle varie missioni di pace e di stabilizzazione”.

“L'idea di un esercito europeo – prosegue l’analista – è un sogno legittimo che riguarda un futuro lontano, il futuro attuale è quello di un processo di militarizzazione dell'Unione europea. Infatti stiamo assistendo a un processo di incremento delle spese militari che nei Paesi europei è stato di circa il 40% in dieci anni. Sulla militarizzazione europea c’è chi è a favore e chi contro, anche perché si sa che i fondi possono invece essere utilizzati in altri ambiti”.

Slogan senza dibattito

Per il docente dell’Università di Genova quello che “veramente dovrebbe preoccupare tutti è invece l'assenza di dibattito su questi temi a livello nazionale ed europeo. Ci si dovrebbe chiedere in quale direzione vuole andare la difesa europea, se si vuole solo spendere per l'acquisizione di armamenti e soprattutto quale è la strategia. Questa discussione non c’è in Europa e non c’è in alcun modo in Italia, dove tutti questi temi sono da campagna elettorale e senza nemmeno avere una strategia di sicurezza nazionale. I cittadini voteranno, ma senza rivendicare il diritto di discutere su quale direzione andare avanti”. Intanto la campagna elettorale procede per spot anche sui temi della guerra.

“Ci sono studi che dimostrano due cose contrapposte –– conclude –, cioè che l'opinione pubblica di fronte a una minaccia molto chiara è anche disposta ad aumentare le spese per la difesa. Allo stesso tempo però di fronte a una maggiore consapevolezza dei costi che derivano da questo incremento mostra una crescente insoddisfazione. Esiste un doppio standard: molti Paesi europei, ad esempio, si trovano a criticare la modalità con la quale il governo israeliano ha risposto agli attentati terroristici del 7 ottobre, ma c’è comunque un sostegno che temo pagheremo per molti molti anni in Europa e non solo”.