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Sono tanti i motivi per cui una persona può continuare a lavorare dopo aver raggiunto l’età pensionabile e non tutti possono essere messi sullo stesso piano. Si può salire a 70 anni su un’impalcatura perché si ha bisogno di guadagnare, con il corollario talvolta di esiti tragici purtroppo sempre più frequenti. Oppure si può proseguire per passione, perché la propria professione piace e si trova soddisfazione nel trasmettere le proprie competenze ai più giovani.
Perché si rimane al lavoro
Su questo tema ha fornito interessanti elementi di riflessione l’Eurostat. Secondo l’ultimo rapporto in Europa un po’ più del 9% delle persone rimane al lavoro dopo aver raggiunto la pensione. L’Italia è in linea con la media, con un 9,4% che dopo i 65 anni continua a svolgere un’occupazione. Il 6,6% ha continuato a svolgere la stessa professione, mentre il 2,8% ha intrapreso un’altra strada. Ma è chiaro che percentuali simili possono avere impatti diversi a seconda della struttura dei diversi mercati del lavoro, e il nostro non brilla certo per creazione di opportunità e dinamicità interna. A pagare dazione, come sempre, le giovani generazioni.
Soccorrono in questo senso anche i dati dell’Istat: nel 2023 il 10,8% dei pensionati ha continuato a lavorare e anche da questa rilevazione le motivazioni risultano quelle segnalate sopra: ma ben un terzo lo fa per motivi economici.
Se la pensione non basta
Una considerazione che tocca un altro nodo centrale: quello della previdenza. In Italia troppe persone, dopo una vita di lavoro, si ritrovano con assegni insufficienti, soprattutto tra le categorie più fragili – donne e chi ha carriere discontinue – le cui pensioni sono fortemente penalizzate dal sistema contributivo: tanto verso, tanto riceva. Una situazione questa che, con le nuove generazioni di lavoratori sempre più precari e sottopagati, è destinata a peggiorare. Motivo per cui, tra le richieste della Cgil c’è quella dell’introduzione di una pensione contributiva di garanzia che per chi, pur avendo versato contributi, non riesce a raggiungere una soglia dignitosa di tutela.
E intanto i giovani...
Se, come si diceva, le motivazioni per le quali si rimane a lavoro anche dopo la pensione possono essere diverse, il tema è comunque importante, soprattutto in una realtà come quella italiana in cui l’invecchiamento della popolazione è un dato inoppugnabile. Perché è certo che se le persone rimangono al lavoro più a lungo (sia perché costretti per legge sia perché lo si è scelto), per i giovani trovare un’occupazione può essere più difficile.
E così non può meravigliare quanto mostrato nel recente rapporto del Cnel Demografia e forza lavoro, secondo il quale l’Italia è il primo Paese nell’Ue per lo squilibrio tra le diverse fasce d’età tra gli occupati, con una differenza del 30% tra 25-34 anni e 55-64 anni (in numeri assoluti i giovani sono circa un milione in meno). In Europa va diversamente, la Germania e la Spagna mantengono un equilibrio tra le due fasce d’età, mentre in Francia addirittura i giovani sono il 20% in più dei più anziani.
Si tratta di un aspetto di grande rilievo. Perché se è vero, come sbandiera il governo, che nel 2024 abbiamo superato la soglia dei 24 milioni di occupati (un cifra record), si scopre che il 90% sono lavoratori over 50.
Il ruolo della politica
Da questo punto di vista le politiche messe in campo dal governo Meloni non aiutano. In barba alle promesse elettorali di cancellare la legge Fornero, l’esecutivo ha perseguito, sin dalla sua prima legge di bilancio, una strategia molto chiara: spostare sempre più in avanti l’età dell’uscita dal mercato del lavoro, in alcuni casi fino addirittura a 70 anni.
Lo ha fatto in tanti modi. Innanzitutto incentivando la prosecuzione dell’attività lavorativa attraverso l’esonero del versamento contributivo (bonus Maroni) a carico dei lavoratori che, potendo scegliere se accedere alla pensione o meno, ricevono in busta paga l’importo netto dei contributi.
Ma poi, soprattutto, arrivando praticamente ad annullare alcuni correttivi alla Fornero che, pur con evidenti limiti, avevano anticipato le uscite. Se è vero che c’è stata una proroga per il 2025 di Ape sociale, Opzione donna e Quota 103, sono stati però confermati i peggioramenti introdotti negli ultimi anni. Un taglio che negli ultimi due anni è pari al 60% della platea e che evidenzia la volontà di restringere qualsiasi misura anticipata rispetto ai 67 anni di età. Il risultato è che la legge Fornero non si applicherà solo allo 0,011% della forza lavoro nel nostro Paese. Un esempio su tutti: con il ricalcolo contributivo e l'estensione delle finestre di accesso al pensionamento per il 2024 per Quota 103 sono state presentate solo 1.541 domande.
Insomma: non sarà una semplificazione trovare ogni volta conferma che il nostro non è un Paese per giovani. E una delle conseguenze, in alcuni settori, è che gli infortuni spesso mortali che capitano sul lavoro ai più anziani non siano frutto del caso.