Mujica non è stato un presidente come gli altri. È stato, prima di tutto, un guerrigliero dei Tupamaros, armi alla mano contro la miseria, la disuguaglianza, la violenza del capitalismo. Arrestato, torturato, rinchiuso per 13 anni in celle buie e umide, uscito vivo e con lo sguardo integro. Chi lo voleva spezzato, lo ha trovato più forte. Chi lo voleva addomesticato, lo ha trovato irriducibile.

Eppure Mujica non ha mai fatto della vendetta la sua bandiera. Ha scelto un’altra strada, più difficile e meno spettacolare: quella del governo popolare. Da presidente dell’Uruguay (2010-2015), ha fatto quello che tanti autoproclamati progressisti promettono e non fanno: redistribuire ricchezza, legalizzare i diritti, sfidare i mercati, disarmare la repressione. Ha reso l’Uruguay un laboratorio concreto di socialismo democratico: aborto sicuro e legale, matrimonio egualitario, cannabis regolamentata, politiche ambientali, investimenti pubblici.

Ma non bastano le riforme. Mujica ha fatto di più: ha mostrato che si può governare senza arricchirsi, che il potere può servire il popolo e non sé stesso. Viveva in una fattoria, non in un palazzo. Donava il 90% dello stipendio. Non aveva scorta, né entourage, né Rolex. Aveva le mani sporche di terra e la coscienza pulita. Parlava ai potenti con parole semplici e ai poveri con rispetto. Era uno di loro, lo è sempre stato.

Nell’epoca della plastica politica, Mujica è stato un pezzo di legno grezzo. Ruvido, ma vero. Scomodo, ma giusto. Non era un santino da commemorare. Era – ed è – una lezione vivente: che la rivoluzione non finisce quando si posa il fucile, ma quando si tradisce l’idea per cui si è lottato.

Nelle sue ultime parole pubbliche ha detto: “Mi sto morendo. Il guerriero ha diritto al suo riposo”. Non era rassegnazione, ma lucidità. Mujica non ha mai avuto paura della morte, perché ha speso la vita. Fino all’ultimo giorno ha difeso i contadini, gli operai, gli ultimi. Con la sua compagna di sempre, Lucía Topolansky, ha mostrato che l’amore e la lotta possono convivere, possono resistere insieme.

Oggi che non c’è più, resta la sua voce controcorrente in un mondo che ha smesso di ascoltare. Resta il suo esempio come bussola per chi non si accontenta. Resta un'eredità politica che non può essere trasformata in merchandising, ma solo in prassi. Non ci servono monumenti a Mujica. Ci serve continuare la lotta. Con radicalità, con dolcezza, con coerenza. Come faceva lui.