PHOTO
Il discorso di Mario Draghi all’Unione europea dello scorso 16 settembre arriva come la carezza di un padre ai suoi figli sconfitti, un “conforto” per essersi piegati ai dazi e al “nuovo” modello di sviluppo imposto dagli Usa. Tecnologia, energia, auto, armi di fabbricazione americana, in cambio di dazi “solo” al 15% (per gli Usa a 0).
Il contesto internazionale
Non si può, dopo gli accadimenti degli ultimi mesi (guerra disastrosa per il sistema europeo in Ucraina, genocidio a Gaza e instabilità in tutto il Medio Oriente, politiche protezioniste di Trump) ragionare come si era fatto tre anni fa. Questo è vero, però sarebbe necessario ricordare che quelli che hanno determinato cosa accade oggi sono gli stessi che continuano a sfornare ricette in perfetta continuità, senza neanche ammettere di avere commesso errori.
La deregolazione tecnologica
Proviamo però a rimanere sulle questioni che ci riguardano più direttamente, anche se tutto è connesso, e torniamo al messaggio di Draghi sull’allentamento delle regole europee sulle tecnologie e l’intelligenza artificiale. La questione è molto delicata ed esaudisce una richiesta pressante che arriva da più di un anno da big tech e Usa. Da uomo “dinamico”, Draghi rilegge il presente e adegua le proprie ricette ultraliberiste: la stella polare è sempre il mercato, ma cambia semplicemente il “capitale di riferimento”.
L’Europa, con il Digital Services Act e il Digital Markets Act, prima, e poi con il Regolamento sull’intelligenza artificiale, oltre a costruire una protezione per i cittadini e i consumatori, aveva provato a resistere all’invasione della tecnologia delle big tech Usa, per proteggere il sistema produttivo, mentre con il Regolamento per il trattamento dei dati personali (Gdpr), nel 2016, aveva provato a tutelare i propri cittadini da abusi e da un uso improprio dei dati personali da parte delle aziende private o degli Stati extra Ue.
Un sistema produttivo piegato alla guerra
Il messaggio di Draghi di ieri è facilmente interpretabile come un contrordine, una implicita rinuncia all’autonomia dell’Europa dagli Usa e dal suo sistema d’impresa e sociale, dopotutto conseguenza di quanto già il Consiglio d’Europa ha determinato con l’accordo commerciale con Trump e con l’accordo sul finanziamento della Nato e la guerra in Ucraina. Posizionamento che dovrebbe preoccupare tutti, anche perché prefigura un processo di riconversione del sistema produttivo europeo in un sistema produttivo di guerra.
L’Europa, nelle parole di Draghi, rinuncia alla transizione green, piegata dal monopolio cinese (con cui ci “è vietato” avere rapporti commerciali e industriali) e dalla nuova dipendenza energetica dagli Usa, dopo la scelta di sanzionare la Russia e rinunciare ad approvvigionamenti economicamente convenienti. Si rinuncia a prospettare uno sviluppo della tecnologia europea, consapevoli che uno dei punti di accordo con Trump è porre meno limiti alle imprese Usa in Ue.
Questo implica nella pratica, come ha ben declinato Draghi, rivedere l’AI Act e il Gdpr.
Il rischio per i lavoratori e i sindacati
D’altronde va detto che a casa nostra, in Italia, la normazione tardiva sugli strumenti di attuazione del Regolamento sull’AI, connesso alla destrutturazione di ogni forma di controllo e alla riluttanza alle relazioni sindacali, aveva quasi anticipato le considerazioni di Draghi.
Se entriamo nel merito delle materie, tutto diventa più nitido e preoccupante. Il Gdpr è l’unico, vero strumento che abbiamo per tutelare i lavoratori (e i cittadini) da un abuso dei loro dati personali: impegna le imprese a utilizzarli in modo appropriato, per specifiche finalità e in trasparenza. È quindi incomprensibile in quale modo queste procedure di cautela per i diritti essenziali possano intaccare il sistema di sviluppo e produttivo dell’Europa.
Sappiamo tutti che l’incapacità delle imprese europee di competere con quelle Usa e cinesi è determinata da ben altro: dimensione d’impresa, poche risorse e scarsi investimenti (da 30 anni si gioca sul contenimento del costo del lavoro), mancato intervento pubblico nelle politiche industriali; non certo da come i dati dei cittadini vengono trattati.
Deregolare in questo ambito, oltre a ridurre la capacità del sindacato di difendere i lavoratori da abusi, controlli impropri e rivendicare occupazione e salario, metterebbe soggetti privati e Stati esteri nella condizione di utilizzare quei dati per finalità sia economiche che di controllo sociale e politico. Questioni che forse, nel quadro internazionale drammatico in cui ci troviamo, sono quelle che più dovrebbero preoccupare.
La sicurezza dei dati come diritto
Il Regolamento AI Act, secondo Draghi, dovrebbe essere modificato e in parte sospeso, per i sistemi cosiddetti ad alto rischio, cioè tutti quelli che intervengono nei luoghi di lavoro. Va intanto ricordato che quei sistemi debbono essere messi a norma entro agosto 2026, quindi ci sarebbe necessità di accelerare la valutazione dei rischi in tutti i luoghi di lavoro, proprio perché siamo in una fase di diffusa introduzione di questi strumenti. Siamo in ritardo, non in anticipo. Sospendere l’efficacia della norma vorrebbe dire lasciare mano libera alle imprese produttrici e utilizzatrici.
Se le imprese sono in ritardo e non si stanno adeguando, e non stanno discutendo con le parti sociali, è anche perché c’è una forte spinta delle multinazionali e di una parte della politica europea e italiana per l’allentamento dei vincoli.
Il “guazzabuglio” italiano
In Italia poi siamo oltre: il disegno di legge sull’AI, dopo essere stato in discussione per molti mesi con modifiche che poco hanno cambiato un testo inadeguato, prefigura un modello di controllo e di verifica dell’attuazione dell’AI Act che ha già fallito prima di essere costituito.
Invece di avere un’autorità indipendente, simile al Garante per il trattamento dei dati personali, come si era fatto per il Gdpr, avremo un’autorità composta da due agenzie di nomina governativa (Agenzia nazionale per la cybersicurezza e Agenzia per l’Italia digitale), assieme ad altre quattro autorità che si dovranno ripartire interventi per competenze specifiche. In pratica un guazzabuglio disfunzionale.
In più, in un disegno di legge in fase di elaborazione, diretto alla semplificazione dell’attività delle imprese, si immagina di smontare ulteriormente l’articolo 4 della legge 300/1970, escludendo dalla previsione della norma l’accordo sindacale per l’uso di strumenti di controllo a distanza se finalizzati alla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
Questo sottrarrebbe al confronto sindacale buona parte degli strumenti utilizzabili nelle imprese, di fatto togliendo la possibilità alle organizzazioni sindacali di verificare e arginare gli abusi. Va infatti ricordato che quegli strumenti che monitorano i lavoratori durante lo svolgimento della loro attività utilizzano molti dati sensibili: spostamenti, modalità di lavoro, tempi, condizione fisica, dati sanitari.
Questo implica, oggi, la redazione di un accordo che escluda un uso improprio dei dati, finalizzato per esempio alla misurazione della produttività o a provvedimenti disciplinari, senza dimenticare che rispetto a questi accordi è necessario, anche per quanto stabilito da altri articoli di legge e dal Testo unico sulla sicurezza, un monitoraggio anche di parte sindacale sugli effetti che questi strumenti possono generare sui lavoratori, oltre alla redazione di un documento di valutazione dei rischi e l’intervento del medico competente con specifiche finalità. In sintesi: una complessa attività in cui il sindacato verifica i corretti comportamenti del datore di lavoro.
Resistere alla resa
Sarebbe insomma necessario fare esattamente il contrario rispetto a quello che dice il nostro ex presidente del Consiglio, perché l’AI sia strumento accettabile e diretto al miglioramento delle condizioni di lavoro e vita delle persone.
La sicurezza dei dati (il loro trattamento) e quanto ne può scaturire dal punto di vista della salute non è diversa da quanto deve essere fatto per la sicurezza fisica nei cantieri. La sicurezza ha un costo ed è un costo d’impresa imprescindibile. Inoltre, l’efficientamento, il miglioramento della produttività, la facilitazione o il miglioramento nella realizzazione del prodotto debbono trovare forme che consentano la redistribuzione della ricchezza, per evitare che aumentino le diseguaglianze e si determini un monopolio assoluto. Questo può passare solo attraverso regole certe, relazioni sindacali, un controllo di autorità indipendenti, un processo chiaro, non certo attraverso una deregolazione e il “mercato”.
Va aggiunto che in questi casi la tempistica, oltre che le buone regole, è tutto. Arrivare a processi già avviati renderà quasi impossibile redistribuire la ricchezza, lavorare per ridurre gli orari di lavoro a parità di salario, tutelare i lavoratori individualmente e collettivamente da abusi. È questo il momento di contrattare e di far valere le norme esistenti. La nostra azione è anche una forma di resistenza a questa “guerra geopolitica” che vorrebbe ridurre ogni spazio democratico e di confronto.
Alessio De Luca, Area politiche per lo sviluppo della Cgil