Con gli ultimi due atti normativi europei, il Regolamento - AI ACT e la Direttiva sul lavoro mediante piattaforme digitali, il quadro di regolazione del lavoro digitale sembra prendere una forma più chiara.

Lo slalom tra norme, consuetudini, paure e da ultimo gli effetti economici e politici del conflitto in Ucraina hanno allungato i tempi di una discussione che avrebbe avuto bisogno di una maggiore capacità di intervento per anticipare fenomeni che oggi, in alcuni casi, sembrano già irreversibili per le dinamiche determinate dal mercato globale.

I meriti della regolazione europea

Detto questo, però, è indubbio che la regolazione europea provi a difendere cittadini e lavoratori dall’uso e dall’abuso di sistemi pervasivi che si nutrono dei loro dati, oltre a provare, nella classica logica europea, a costruire un mercato del lavoro con maggiori tutele.

Ripercorrendo i contenuti dell’AI Act e da ultima la “Direttiva Piattaforme digitali”, è chiaro che c’è stato uno sforzo a tenere assieme coerentemente i principi fissati in questi anni, a partire da quelli essenziali indicati nel GDPR; quindi, possiamo dire con nettezza che alcuni limiti indispensabili sono stati posti.

Pensiamo al divieto dell’uso del riconoscimento emotivo o biometrico nei luoghi di lavoro, o a come si sia indicato in dettaglio quali informazioni devono essere fornite agli interessati sui trattamenti dei loro dati, o alle consultazioni/informative ai rappresentanti sindacali rispetto all’introduzione di sistemi digitali che organizzano il lavoro.

Senza dimenticare il fondamentale passaggio sulla presunzione legale, in base alla quale saranno le aziende a dover dimostrare di aver adottato la forma contrattuale coerente con l’ordinamento nazionale per lavoratori che sono “organizzati” da piattaforme digitali.

Nell’ultimo testo, quello sul lavoro di piattaforma, si è lavorato per determinare anche una azione amministrativa diretta, una collaborazione ad esempio tra INL e Garante per il trattamento dei dati.

Occorre più coraggio

Viene però da dire, guardando all’insieme dei testi, che l’azione regolatoria non può definirsi, nel campo del lavoro, coraggiosa. Vista la fase di grande accelerazione della trasformazione digitale, lo squilibrio globale nella distribuzione delle tecnologie, questa doveva essere l’occasione per osare proponendo un modello continentale coeso; invece si è, ancora una volta, ceduto alle istanze nazionali, ai diversi modelli regolatori, lasciando l’insieme del mercato del lavoro a 27 “eccezioni”.

Tre questioni fondamentali

Demandare ai singoli Stati il compito di definire la qualità della tutela e l’azione delle autorità competenti continuerà a generare lavoratori europei, nella sostanza, con trattamenti e tutele molto diverse con un impatto d’insieme marginale nel contesto globale.

Tre questioni su tutte:

  1. Il modello sindacale è comunque diverso nei 27 Paesi, il fatto che i vari testi normativi parlino di informativa/consultazione, non mette il sindacato europeo nel suo insieme nella condizione di agire efficacemente in un’azione omogeneizzante e riequilibrante del mercato del lavoro UE. Si continua nell’idea che il mercato del lavoro europea debba generare al suo interno una concorrenza basata sul costo del lavoro e i livelli di tutela. Siamo ancora nell’ottica della mera difesa di un diritto individuale e non nell’azione dinamica e solidaristica che sarebbe indispensabile, ma l’errore era già stato realizzato nella stesura della norma europea sul salario minimo.
  2. Le norme italiane, almeno per alcuni aspetti regolatori (e risulta anche paradossale parlando essenzialmente dello Statuto dei lavoratori, anno 1970), sono più avanzate di alcune regole fissate nella Direttiva piattaforme digitali. Questo rischia di determinare un conflitto nell’applicazione/attuazione che potrebbe peggiorare l’attuale quadro normativo italiano o scaricare direttamente sui tavoli di trattativa e nei tribunali del lavoro il peso dell’attuazione. L’esempio può essere la qualità dell’intervento del sindacato nella definita “consultazione” all’introduzione di nuove tecnologie pensando a quanto sancito dall’articolo 4 della legge 300/1970 sull’autorizzazione dell’uso di strumenti di controllo a distanza. O il concetto di intermediario espresso nella Direttiva, tenuto conto dei limiti posti dalla norma italiana sull’interposizione di manodopera e sugli appalti e subappalti.
  3. Il sistema di controlli e di autorità indicate nelle diverse norme che dovrebbero agire in alcuni casi ex ante (valutazione d’impatto art. 35 del Regolamento UE 2016/679), o che dovrebbero collaborare ed essere organizzativamente adeguate a rispondere al nuovo contesto. Sappiamo bene quanti problemi, oltre che posizioni politiche avverse, si hanno nel nostro Paese, su un interventismo da parte di organismi di controllo e dello Stato in campo economico. Sarebbe per noi una rivoluzione culturale immaginare di rafforzare le autorità, renderle collaborative tra loro e predisporre iniziative volte a interagire con le organizzazioni sindacali per regolare il sistema in anticipo e non, come avviene da anni, a seguito di conflitti, denunce e licenziamenti.

Il rischio di un modello caotico

Queste sono le tre questioni, espresse troppo sinteticamente, per dire che per regolare efficacemente una così profonda transizione bisognerebbe andare oltre la norma formale. I contesti, le regole nazionali, i modelli culturali rischiano di definire un modello caotico in cui i più furbi, gli spregiudicati, continueranno ad agire al di fuori delle regole con un ulteriore affaticamento dell’azione regolatoria e rivendicativa del sindacato.

Riequilibrare il mercato del lavoro

Possiamo dire che in Italia è indispensabile ripartire dalle norme, ma per renderle sistemiche, coerenti ed efficaci; quindi, è indispensabile ripartire da un’azione che attraverso la campagna per i referendum abrogativi e proposte di legge coerenti riequilibri il mercato del lavoro rendendo efficace il sistema di controlli, la contrattazione e la tutela collettiva e individuale.

In questa fase di trasformazione e cambiamento nella distribuzione della ricchezza è indispensabile avere strumenti efficaci, il rischio altrimenti è quello di un aumento delle diseguaglianze e della concentrazione di potere nelle mani di pochissimi soggetti privati.