PHOTO
Unione europea 15 per cento, come anche Giappone e Corea, Regno Unito 10, Canada tra 25 e 35 a seconda delle merci, Svizzera 39, Brasile oltre il 50 per cento. Sono solo alcuni dei dazi che il presidente statunitense Donald Trump ha deciso di imporre sulle importazioni e che dovrebbero entrare in vigore il 7 agosto. Dovrebbero perché non c’è ancora niente di scritto, niente di certo: la data del 7 è arrivata dopo un balletto e al momento è la più accreditata.
Che cosa sono?
Ma che cosa sono i dazi? Si tratta di una tassa ulteriore che sarà imposta sulle merci che provengono da Paesi terzi rispetto agli Stati Uniti e che in pratica faranno costare di più questi beni al consumatore finale, e cioè ai cittadini americani. Dalle dogane ai magazzini fino agli scaffali di negozi e supermercati, sono gli acquirenti Usa che dovranno fare i conti con i rincari su ciò che arriva dall’estero.
Alcune aziende Usa infatti stanno già pensando di alzare i listini per controbilanciare l’aumento delle tariffe e dei costi. Stiamo parlando di beni di consumo primario, che arrivano in Usa anche come basi per essere trasformati in tantissimi settori, dall’alimentare all’high tech, e che arriveranno ulteriormente tassati.
Quanti Paesi coinvolti?
I dazi sono decisi da Trump con decreti presidenziali (è tra le sue prerogative farlo, in totale autonomia) e dovrebbero colpire 68 Paesi e blocchi di Paesi in ogni angolo del Pianeta, Europa, Asia, Africa, parte dell’America Latina. Alcune di queste lettere presidenziali il tycoon le ha scritte e già inviate, alla Thailandia per esempio, all’Indonesia, al Brasile, all’India, e sono state pubblicate sul sito del ministero del Commercio americano. Le scrive durante la notte e poi le manda, e noi, il resto del mondo, ce le ritroviamo sui giornali il giorno dopo, un’azione molto comunicativa che crea tensione e aspettative.
Perché Trump li ha decisi?
“Non sono a favore della teoria dell’igiene mentale – afferma Monica Di Sisto, vicepresidente dell’Osservatorio italiano su commercio e clima Fairwatch –. Lui è consigliato da una serie di economisti che hanno sempre sostenuto che un’eccessiva estroversione dell’economia crea una forte vulnerabilità. E noi dei movimenti su questo siamo sempre stati d’accordo. Nel G20 e nel G8 si era già parlato della necessità di ‘riportare a casa le produzioni’ per essere più indipendenti su alcuni ambiti strategici, in situazioni di difficoltà, come è stato per la pandemia, come può accadere per difficoltà politiche o per conflitti.
È una terapia d’urto?
Anche il presidente Obama si era avviato su questa strada, usando lo strumento dei bonus. Mentre Trump ha scelto una terapia shock. “L’obiettivo è far rientrare la manifattura e gli investimenti, limitare le importazioni dall’estero e ancorare l’economia reale, in modo da arginare il debito pubblico che è gigantesco – aggiunge Di Sisto –. Se nella crisi del 2008 il debito che fece scoppiare il default era privato, il problema attuale è che il debito statunitense è pubblico e molta parte di questo debito lo stanno acquistando le criptovalute. Gli Usa però non possono fallire. Questa dei dazi è una contromisura per riportare in patria la produzione”.
Funzionerà?
Il fine ultimo quindi è tentare di risanare le casse dello Stato. Ci riuscirà? “Trump sta facendo una politica economica che a mio avviso gli si ritorcerà contro, ma questi sono problemi suoi – prosegue Di Sisto –. Forse otterrà qualche risultato alla lunga, magari quando dovrà essere rieletto”.
Nel frattempo, danneggerà aziende che non pagano tasse né in Italia né in Europa, pur essendo le nostre corazzate. Aziende che ricevono comunque aiuti di Stato e che piangono miseria per la possibile riduzione dei profitti solo per ricevere sostegni. Peccato che si tratti di imprese che lasciano in Europa le briciole della produzione, e quindi dei posti di lavoro, e che hanno il quartier generale all’estero, in paradisi fiscali.
E noi?
“Se guardi i sondaggi sui prodotti italiani venduti oltreoceano, c’è una percentuale altissima di acquirenti americani che dice che continuerà a comprarli anche se salgono di prezzo – spiega Di Sisto –. Il punto è che si potrebbero ridurre i profitti di chi esporta in Usa, dalla pasta ai formaggi agli occhiali, perché le vendite potrebbero calare. Ma in tutto questo noi cittadini, che cosa c’entriamo? Se si riducono i profitti delle aziende, non si creano problemi ai consumatori italiani. Mentre qui si è instillato il panico tra i nostri cittadini come se i dazi dovessimo pagarli noi”.
Perché dovremmo pagare noi?
È chiaro che se il prezzo di un prodotto sale, dovrebbero salire anche i prezzi del resto della produzione: ma perché un imprenditore dovrebbe scaricare su di noi, sui prodotti venduti qui il prezzo dei prodotti destinati all’esportazione in Usa?
“È sbagliato da due punti di vista: perché dovresti far pagare ai consumatori italiani quello che presumi di non guadagnare negli Usa? E poi perché scarichi il mancato profitto sul prezzo? È profondamente ingiusto ed è quello che dovremmo chiedere che non accada. Quello che sta facendo Trump può non piacere ma può farlo. Il punto è che non è matematico che ci danneggi”.
Posti di lavoro addio?
Certo, le aziende potrebbero fare armi e bagagli e spostare in territorio Usa quel poco di produzione che hanno in Europa, per aggirare il problema dei dazi, che è poi l’obiettivo ultimo di Trump. Ma lo spauracchio del milione di posti di lavoro che potremmo perdere, non è suffragato da numeri né da misurazioni reali.
Cosa fa l’Unione europea?
E l’Unione Europea che fa? Anziché chiedere misure che siano dei controvincoli ai dazi, mette in atto una politica remissiva. Pur essendo un mercato unico da 450 milioni di consumatori, alza le mani e negozia su settori sui quali non può negoziare, come la sicurezza alimentare, la sicurezza ambientale, la certificazione della qualità dei prodotti. Tutti ambiti nei quali le regole Ue sono molto più stringenti di quelle americane e sui quali da tempo è in atto un tentativo di forzare i paletti per dare mano più libera alle aziende.
Quali retroscena?
“Il marchio CE sui frullatori, per esempio – dice Monica Di Sisto –, quello che garantisce che gli apparecchi non si incendino e che le lame si blocchino in certe situazioni, è una delle cose sul tavolo del negoziato con gli Usa. I residui di pesticidi ammessi è un altro elemento incluso nel negoziato sui dazi”.
Altro esempio, gli ftalati, sostanze chimiche usate nelle plastiche di provata tossicità: sono interferenti endocrini e mettono a rischio lo sviluppo del cervello dei bambini. Da noi sono messi al bando, negli Stati Uniti no. Nelle merci che gli americani esportano da noi, gli ftalati non ci devono essere, quindi. Ebbene, è questo tipo di barriera che vogliono far cadere. Vogliono che saltino barriere che non sono tariffarie, ma attengono alla sicurezza dei farmaci, alla sicurezza nella chimica.
Un regalo alle aziende?
“Quindi il sospetto è che si stia usando Trump e la sua politica sui dazi per fare un regalo alle industrie che non devono rispettare determinate regole negli Usa e non lo vogliono fare neppure da noi – conclude Di Sisto – : un tentativo di deregulation che si aggira da tanto tempo nelle stanze della Ue, notoriamente e giustamente più rigida in ambiti come lo smaltimento dei rifiuti, il controllo dell’aria, dei pesticidi, delle sostanze chimiche. Ed è su questo che dobbiamo fare grande attenzione”.