Duemila miliardi di euro l’anno (più del 14% del Pil europeo) e oltre quaranta milioni di lavoratori coinvolti: di questo si parla quando si affronta la revisione delle direttive europee sugli appalti pubblici. La discussione è entrata in una fase cruciale: il 3 luglio la Commissione Imco del Parlamento europeo (commissione per il mercato interno e la protezione dei consumatori ndr) ha approvato un rapporto che, pur includendo alcuni emendamenti sostenuti dai sindacati (a partire dalle rivendicazioni unitarie di Cgil, Cisl e Uil del 15 maggio scorso), non garantisce i necessari miglioramenti a tutela dei lavoratori.

Come tutti i rapporti elaborati dalle commissioni, l’obiettivo è dare indicazioni e proporre criteri su cui la Commissione dovrà successivamente elaborare una proposta di Direttiva. Restano infatti aperti nodi centrali sull’obbligo di applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, sui possibili limiti ai subappalti, l’effettiva applicazione delle clausole sociali e ambientali, ma anche il superamento della logica del massimo ribasso e la possibilità per le aziende pubbliche di offrire servizi “in house”. In vista della votazione in plenaria prevista per il 9 settembre la Cgil, insieme a Cisl, Uil e alla Ces, spinge per rafforzare le garanzie conquistate in Italia con il nuovo Codice appalti, per evitare che la normativa continentale si traduca in un arretramento. Ne parliamo con Alessandro Genovesi, responsabile Contrattazione inclusiva per la Cgil nazionale.

IMAGOECONOMICA
IMAGOECONOMICA
Alessandro Genovesi

Nonostante alcuni miglioramenti, la tutela del lavoro negli appalti non pare essere un cardine della revisione europea. Quali rischi concreti intravvede la Cgil per i lavoratori italiani ed europei se la direttiva finale restasse su questa impostazione?
Che la direttiva attuale scritta nel 2014 andasse aggiornata, alla luce della stessa evoluzione tecnologica e degli scenari economici e industriali mutati, è pacifico. Si vedano per tutti, i rapporti Letta e soprattutto Draghi. Non è accettabile, però, che questo avvenga riducendo le tutele previste, e soprattutto i tanti passi avanti compiuti da esperienze come quella italiana, spagnola o tedesca, più attente a coniugare efficienza di mercato e sostenibilità sociale e ambientale. Dietro l’obbligatorietà, e non la possibilità, di applicare i Contratti collettivi nazionali di lavoro, le clausole sociali a tutela dei livelli occupazionali, l’estensione della responsabilità in solido lungo la filiera e la riduzione dei del subappalto a cascata, c'è la condizione materiale di milioni di lavoratori. E soprattutto una visione sociale e industriale. Per questo gli appalti pubblici devono essere una leva per aumentare e qualificare la domanda interna, anche rispetto alle guerre commerciali in corso, e per qualificare le imprese. Ma anche per favorire le economie di scala e la maggiore specializzazione produttiva, cosa e come si produce, e quindi per promuovere il lavoro di qualità, i saperi e la contrattazione collettiva. Se si pensa di aumentare la competitività europea, anche rispetto alle strategie statunitensi o asiatiche, con un po' più di liberismo, togliendo lacci e lacciuoli, si sbaglia strada. Come Cgil, insieme a Cisl e Uil, non ci accontentiamo dei miglioramenti ottenuti rispetto ad un primo testo, pessimo e ordo-liberista, che pure ci sono stati e sono evidenti. Ma li rivendichiamo, si veda la bozza di risoluzione che verrà votata il 9 settembre. Perché come sindacato italiano, insieme alla Ces e a diverse federazioni europee di settore, ne siamo stati protagonisti. Li giudichiamo ancora insufficienti, però. Come del resto hanno fatto anche i Socialisti e Democratici, di cui fa parte Pd, il gruppo Left, e parte del gruppo dei Verdi. Insomma non possiamo accontentarci di difendere solo il meglio della “vecchia direttiva” come se corruzione, aumento dei morti sul lavoro, crescita della precarietà e sfruttamento non siano tutti fenomeni che abbiamo registrato in questi anni. E come se tutta la strategia per politiche industriali e di sviluppo ambientalmente e socialmente più sostenibili, come il Next generation, i vari Pnrr e programmi Sure, siano ora da mettere tra parentesi.

In Italia con il nuovo Codice appalti, si è ottenuto un quadro più avanzato in materia di responsabilità solidale e clausole sociali. Come intendete evitare che la normativa comunitaria diventi un passo indietro rispetto a quelle conquiste?
Questo è il punto. Noi veniamo da una stagione positiva che dopo il primo recepimento della direttiva comunitaria con il Codice appalti del 2016 (d.lgs. 50/2016) e poi soprattutto con l’attuale versione (legge delega 78/2022 e D. Lgs. 36/23) ha applicato di fatto tutte le “possibilità” lasciate al legislatore nazionale per estendere diritti e tutele. Dall’obbligatorietà di applicare uno specifico Ccnl firmato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, alla parità di tutele economiche e normative tra lavoratori in appalto e subappalto; dall’obbligatorietà della clausola sociale nei cambi di appalto per tutelare i livelli occupazionali, alla valorizzazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa rispetto al massimo ribasso”. Fino ad arrivare a esperienze tra le più avanzate nel mondo, come il Durc di congruità in edilizia o il divieto di ribasso oltre che sui costi della sicurezza, anche sui costi della manodopera. Tanto che, nei casi specifici, dev’essere l’impresa a dimostrare la migliore efficienza aziendale, rovesciando l’onere della prova. A tutto questo si è poi sommata una stagione, ancora in corso, di contrattazione sindacale di anticipo che ha addirittura implementato ulteriormente le tutele. Ad esempio, limitando o vietando i subappalti oltre il primo livello o indicando, attività per attività, il più corretto contratto nazionale da applicare. Un sistema articolato e radicato di tutele che ha innervato l’intero codice, e che è diventato patrimonio anche di molte istituzioni e di molte imprese serie e strutturate e relative associazioni datoriali. Lo stesso tentativo di manomissione da parte del governo Meloni nell’autunno scorso è stato di fatto respinto e le modifiche apportate sono comunque “sindacalmente” gestibili. Anzi, grazie alle mobilitazioni e all'esperienza concreta contrattuale di cui la Cgil e le sue categorie sono state protagoniste, siamo riusciti a imporre a questo governo, che ovviamente all’inizio non voleva, di portare alcune tutele degli appalti pubblici nel sistema degli appalti privati. Si pensi al nuovo comma 1 bis dell’articolo 29 del D. Lgs. 276/03 che ha recepito il principio che è l’attività che si svolge in appalto o in subappalto a definire il contratto collettivo nazionale e le relative tutele economiche e normative da applicare ai lavoratori e non quello che reputa invece più utile la singola azienda. Da qui la stessa campagna “I diritti non si appaltano”.

Sul tema dei subappalti, l'Unione pare riconoscere i rischi ma non parrebbe intenzionata a introdurre limiti stringenti. Perché, secondo te, l’Ue continua a faticare a legiferare in modo più vincolante, nonostante gli abusi siano ben noti?
Perché prevale una visione ideologica del mercato e delle imprese e, quindi dello stesso strumento del subappalto. Per noi il subappalto è legittimo e anzi in alcuni casi necessario. Ma deve essere uno strumento per garantire quegli interventi specialistici o quelle flessibilità che sono funzionali sia ai processi produttivi che al servizio offerto. E questo le imprese più serie e strutturate lo condividono. Ad oggi, però, è solo uno strumento per pagare salari più bassi e risparmiare sui costi dalla salute e sicurezza e per creare sempre più zone grigie per rendere difficile a stazioni appaltanti e ispettorati vari di verificare cosa accade in quel cantiere o in quell’ospedale. Spesso solo il veicolo preferito dalle organizzazioni criminali per infiltrarsi nel tessuto economico. Si tratta allora di generalizzare la responsabilità in solido e l’obbligo di applicazione degli stessi contratti collettivi nazionali lungo la filiera e di mettere un limite sia “quantitativo” che di “quanti livelli”, per tornare ad affermare un principio base del pensiero “liberale”. Chi partecipa a un appalto deve essere in grado poi di svolgerlo con proprio personale, propri mezzi, un controllo e una responsabilità diretta. Insomma che le imprese facciano le imprese e non gli “intermediari”. Non mi pare una richiesta sovversiva. Al riguardo si vedano le indicazioni precise date dall’Ela (l’autorità europea del lavoro ndr), dallo stesso rapporto Letta, con il quale non a caso interloquimmo direttamente, e quanto scritto dalla Commissione occupazione e politiche Sociali dello stesso Parlamento europeo.

Le clausole sociali e ambientali restano spesso indebolite dalla logica del risparmio sui costi. Quanto pesa ancora il paradigma del massimo ribasso nella cultura politica europea e come si potrebbe scardinare?
Inutile girarci intorno: dietro il massimo ribasso c'è una visione di società e quindi anche di impresa. La stessa Ue lo riconosce, tanto è che tra gli emendamenti “presi” in modo più convinto vi è proprio quello che indica di ridurre il ricorso al massimo ribasso. Oltre il 50% di tutti gli appalti, come scrive la Corte di conti europea, negli ultimi anni sono stati assegnati con il criterio del “massimo ribasso”, e in ben 10 paesi Ue tale percentuale ha superato l’80%. Uno dei paesi che, proporzionalmente, fa meno ricorso al massimo ribasso e utilizza di più il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa è proprio l’Italia. E questo accade, penso, anche grazie al nostro Codice, e soprattutto alla diffusa attenzione e pratica sindacale delle nostre organizzazioni. La logica del massimo ribasso è scardinabile, allora. Serve però una visione di sistema. Qualificare le politiche industriali, qualificare le imprese è possibile se qualifichiamo la domanda privata e pubblica di beni e servizi. Questo vuol dire, però, riconoscere il giusto prezzo, reperire e liberare risorse pubbliche volte a promuovere occupazione di qualità, e magari non investire di più in armi. Insomma, cambiare il modello di fare impresa. Questa è la “politica” bellezza!

Cgil, Cisl e Uil richiamano il ruolo della Confederazione europea dei sindacati e delle federazioni di categoria. Quanto può essere decisiva la capacità di pressione sindacale a Bruxelles da parte dei sindacati europei?
Finora si è dimostrata fondamentale, anche in coerenza da parte della Ces con il “patto” sul dialogo sociale sottoscritto con la nuova Commissione europea il 5 marzo scorso. I miglioramenti di carattere “difensivo” portati a casa sono frutto di una costante azione di interlocuzione e pressione sui principali gruppi parlamentari europei e sulle stesse strutture della Commissione. Ma non è ancora sufficiente. Pesa l’incertezza del quadro politico e una tentazione da parte della Commissione di praticare una politica del “doppio forno”: una volta con i Socialisti e democratici, una volta con i conservatori. Probabilmente dovremmo riflettere, anche vedendo le evoluzioni future il 9 settembre prossimo ma anche dopo, quando materialmente si scriveranno i testi della nuova direttiva, se “alzare” il livello di mobilitazione. Ma questa ovviamente è una scelta che si dovrà fare tutti insieme in Europa.

Guardando al voto in plenaria del 9 settembre, quali margini di miglioramento restano aperti e quali sono le priorità che la Cgil non è disposta a sacrificare nel confronto europeo?
Il voto del 9 sarà abbastanza scontato. Il prossimo “tempo” ce lo giocheremo quando la Commissione dovrà materialmente tradurre le raccomandazioni in testi normativi. Da questo punto di vista sarà fondamentale continuare ad agire sul Partito popolare europeo e “usare” i voti contrari di Socialisti, Left e Verdi per produrre ulteriori avanzamenti e mediazioni in avanti, che possano far progredire la Direttiva in sede di Commissione e di Parlamento europeo. Per questo è fondamentale anche continuare il positivo lavoro che la Cgil sta facendo a livello Ces, e a Bruxelles. Sicuramente non possiamo cedere su obbligo di applicazione del Ccnl, responsabilità in solido e tutela dei livelli occupazionali. Ma anche sulla limitazione dei subappalti, o comunque sul rafforzamento della responsabilità in solido,e sulla possibilità per gli enti pubblici e le società partecipate di poter scegliere tra affidamenti esterni o servizi “in house”. Si tratta di questioni industriali, certo, ma vuol dire anche e soprattutto difendere le prerogative del pubblico e del welfare. Il rischio sarebbe un arretramento delle tutele attuali. Già vedo in Italia chi si dimentica dell’Europa per tutelare rendite e “blocchi elettorali”, e invoca la nuova Direttiva per fare quello che finora non sono riusciti a fare: manomettere le conquiste del movimento sindacale. Ma sono ottimista. Abbiamo concretamente dimostrato che si può tenere insieme il “fare presto” con il “fare bene”, e che gli appalti che tutelano il lavoro, alla fine, offrono prestazioni per la cittadinanza. Siano essi lavori pubblici o servizi alla persona, sono migliori, con maggiore efficienza e con maggiore sostenibilità finanziaria.