“Kabul e tutto il mondo. Lotta, cura, diritti”, questo il manifesto con cui il Coordinamento donne dello Spi Cgil ha voluto ricordare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, il 25 novembre. E in molti territori i coordinamenti donne hanno tenuto incontri ed assemblee – in forma ibrida come si conviene oggi – per mantenere viva l’attenzione sul dramma delle donne afghane e di quell’intero Paese.

Struggente la testimonianza ad Assisi di una giovane donna afghana, fuggita ad agosto con la sua famiglia grazie all’intervento di Pangea, che è riuscita ad inserire lei e i suoi parenti nel volo militare italiano. “Siamo precipitate nell’oscurità. È come un incubo. Ma l’incubo al risveglio svanisce, mentre in Afghanistan l’incubo è realtà quotidiana persistente”.

Sta a noi ora riaccendere le luci, evitare che le donne, gli uomini, i bambini afghani vengano dimenticati, lasciati soli, anche da noi, che pure facciamo parte di quella società civile solidale e “internazionalista” che non si è completamente girata dall’altra parte in questi vent’anni. Quelli dell’intervento militare, dell’occupazione occidentale dell’Afghanistan come “vendetta” dell’amministrazione Bush per i terribili attentati delle Torri gemelle.

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Forse serve a poco ricordare che la Cgil ha sempre espresso e manifestato la sua contrarietà a quella guerrache si abbatteva su un Paese già martoriato, ferito, diviso, impoverito. Un Paese che da oltre 40 anni ha conosciuto una guerra infinita: prima l’Unione Sovietica, poi la guerra “civile etnica”, quindi Usa e Nato. Nessuno credeva all’“esportazione della democrazia” e alla guerra “per i diritti delle donne”, leit motiv dell’ipocrita propaganda occidentale. Come pochi si illudevano anche sull’efficacia militare di quell’enorme spiegamento di mezzi e dispendio di ingenti risorse, la carneficina non solo di soldati americani ed europei (54 le vittime tra le truppe italiane), ma soprattutto di civili inermi, cinicamente definiti “effetti collaterali” della guerra sempre più “chirurgica” – per gli eserciti, non certo per la popolazione.

Gli occupanti controllavano al massimo la capitale e le principali città – neanche tutte – mentre il resto del Paese rimaneva nelle mani dei Talebani o di locali “signori della guerra”, di volta in volta in conflitto tra loro o “alleati” contro gli occupanti. E, a parte una relativa libertà nelle città, nel resto del Paese la condizione delle donne, i diritti umani non avevano certo fatto progressi, mentre, a dispetto del fiume di denaro che arrivava a sostegno della guerra e del “governo fantoccio”, il Paese rimaneva tra i più poveri del mondo: oggi il 97 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà.

E con la presa del potere da parte dei Talebani siamo a una gravissima emergenza umanitaria: la gente non ha letteralmente di che sfamarsi, non si trovano cibo e altri generi di prima necessità; del resto, anche dopo la riapertura delle banche, non circola denaro. Lo strangolamento del regime talebano voluto dalla comunità internazionale si sta traducendo – come era facilmente prevedibile – nella condanna a morte per la popolazione civile. Mentre ormai è arrivato l’inverno e per la maggior parte delle famiglie sarà impossibile trovare anche come scaldarsi.

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È scandaloso come i governi responsabili dell’occupazione militare – che hanno negoziato con i Talebani il loro ritorno (l’unica “sorpresa” può forse essere quella dei tempi rapidissimi con cui hanno “conquistato” il Paese, non certo che gli accordi di Doha non prevedessero la loro “vittoria”) – nascondano ora la loro inazione di fronte alla gravissima crisi umanitaria dietro la giusta necessità di non riconoscere il governo dei Talebani. Ma – come è già avvenuto per la caotica evacuazione – non riconoscere il nuovo governo non significa evitare ogni contatto, non negoziare-imporre interventi umanitari delle agenzie delle Nazioni Unite, non trovare i canali – anche attraverso influenti “alleati”, come il Pakistan storico sponsor dei Talebani – per condizionare gli “studenti coranici” e imporre il soccorso alla popolazione stremata. Basterebbe destinare una piccolissima parte di quelle risorse che in questi vent’anni sono state investite nella guerra.

Ma Usa e Unione europea pensano di aver scaricato le loro responsabilità con l’”accoglienza” di qualche migliaio di profughi – spesso solo i loro più stretti collaboratori – mentre la loro “generosità” si esercita al massimo nel promettere di fornire aiuti ai Paesi limitrofi (dal Pakistan al vituperato Iran) a patto che si facciano carico di trattenere quella parte della popolazione afghana che cerca di fuggire dal Paese, pur con mezzi scarsissimi a disposizione e scontrandosi con frontiere sigillate, da ambo i lati dei confini.

Tocca ancora alla società civile supplire all’irresponsabilità dei governi. Come, pur fra luci e ombre, abbiamo fatto in questi vent’anni. La Cgil lo ha fatto con la partecipazione-promozione del grande movimento contro la guerra – dalla marcia straordinaria Perugia-Assisi all’indomani dell’occupazione Usa e Nato dell’Afghanistan, alla straordinaria, enorme mobilitazione contro la guerra “gemella” all’Iraq del 2003 – e partecipando ai tentativi della società civile italiana di sostenere quella afghana, fragile, frammentata, fortemente limitata nelle sue agibilità, quando non “clandestina”.

Quando, nel 2005, una delegazione della Cgil si recò a Kabul – proprio sentendo la responsabilità dell’Occidente verso quel popolo e la necessità di portare la solidarietà della società civile italiana, mentre anche noi eravamo “truppe di occupazione” – incontrammo quelle stesse organizzazioni di donne (Rawa, Hawca, Hpwo, Awtva – nell’acronimo non a caso ricorre la “w” di women-donne) che sono rimaste lì a lottare e a difendere quel poco di diritti conquistati. Così come nel 2011 e nel 2013, dentro la coalizione italiana afghana, siamo andati a sostenere i coordinamenti di organizzazioni sociali e civili, per i diritti umani e i diritti delle donne, che già allora, mentre chiedevano la fine dell’occupazione occidentale, temevano di essere poi abbandonate al loro destino.

Ecco, non spegnere i riflettori, sostenere le Ong italiane che ancora operano in Afghanistan – da Emergency a Pangea, a tanti piccoli progetti – trovare tutti i canali per far arrivare sostegno e solidarietà alle organizzazioni di donne e alla società civile. E soprattutto costringere i governi a imporre nuovi corridoi umanitari e ad accogliere decine di migliaia di persone che vogliono lasciare il Paese, a partire dai familiari di chi è stato già evacuato, che non possono certo attendere le normali procedure di “ricongiungimento familiare”.

I “nostri” militari sono fuggiti dall’Afghanistan. Noi non possiamo fuggire dalla nostra solidarietà. Lo dobbiamo a noi stessi prima ancora che alle donne afghane.  

Leopoldo Tartaglia, Dipartimento internazionale Spi Cgil