La tragedia di Calais: il diritto di asilo in discussione per Parigi e Londra
Le Monde, 25 novembre 2021

Dopo la tragedia di mercoledì scorso, il problema fondamentale non è quello dei trafficanti, ma, oramai, quello della ripartizione dei richiedenti asilo tra l’Unione europea, la Francia in particolare, ed il Regno Unito. La maggioranza delle vittime era curda, provenivano dall’Iraq o dall’Iran, e sognavano di vivere in Inghilterra. Il loro viaggio è finito drammaticamente, quando, mercoledì 24 novembre, un peschereccio ha scoperto una quindicina di corpi che galleggiavano al largo di Calais. Sono morti annegati nella Manica almeno ventisette persone, tra queste sette erano donne.

Questa frase, che sintetizza il naufragio di migranti più grave consumato tra la Francia e il Regno Unito, non avrebbe mai dovuto essere scritta. Questa tragedia insopportabile è una vergogna per i due Paesi. È il risultato del fallimento della loro politica di gestione delle frontiere. Ma il disastro è anche europeo, dal momento che la Manica, dopo la Brexit, rappresenta la frontiera esterna dell’Unione europea.

Secondo le associazioni umanitarie, dal 1999 sono morti più di 300 migranti lungo il litorale. La Manica è diventata una ferita aperta nel cuore del continente europeo. Migranti morti schiacciati dai treni o soffocati nei camion nel tentativo di attraversare il tunnel della Manica. Con la chiusura degli accessi dal 2018, i migranti si imbarcano su gommoni gonfiabili fragili e a volte muoiono annegati, vittime del cinismo dei trafficanti, ma anche vittime dell’irresponsabilità di Parigi e di Londra.

Retorica ipocrita

Scioccato dalla tragedia consumata mercoledì, il primo ministro britannico, Boris Johnson, ha accusato la Francia di “non fare abbastanza” sforzi per impedire ai migranti di raggiungere le coste britanniche. Il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato: “La Francia non permetterà che la Manica diventi un cimitero”. Come hanno fatto i loro predecessori, fanno la gara a chi con fermezza combatte di più contro le bande di trafficanti e protegge le frontiere.

Dopo la tragedia di mercoledì, sarebbe ora che si ammettesse quanto inutile sia questa retorica. Se le traversate disperate aumentano, se i trafficanti proliferano, è perché non esiste nessun canale legale per l’immigrazione verso il Regno Unito, e, soprattutto, è perché gli accordi stravaganti di Touquet firmati da Nicolas Sarkozy nel 2003 fanno della Francia il guardiano della frontiera britannica. Questi accordi permettono in realtà a questo paese, uno dei fondatori della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951, di respingere i richiedenti asilo.

Il problema fondamentale non è quello dei trafficanti, ma, oramai, quello della ripartizione dei richiedenti asilo tra l’Unione europea, la Francia in particolare, ed il Regno Unito, Emmanuel Macron, che aveva minacciato di denunciare gli accordi di Touquet quando era ministro, deve usare questa leva per spingere i britannici a negoziare su questo tema. I criteri e le modalità per esaminare le richieste di asilo alla frontiera devono essere decisi congiuntamente. L’Unione europea, di cui la Francia occuperà la presidenza di turno a gennaio del 2022, deve sostenere questi progressi se vuole uscire da una situazione aberrante nella quale si impedisce ai migranti di Calais di lasciare il suolo francese.

Lo status quo non deve essere più un’opzione, per Londra, né tantomeno per Parigi e Bruxelles. Questi corpi che galleggiano sull’acqua gelida della Manica, nel cuore di una delle regioni più ricche al mondo e di un continente troppo pieno nella storia di tragedie di esili forzati e di deportazioni, fanno orrore.  In un mondo dalle frontiere sempre più contestate, come possono il Regno Unito e dl Francia, due Paesi alleati e amici, continuare a dare uno spettacolo straziante sulla loro faida mortale di quartiere?

Per leggere l'articolo originale: Tragédie de Calais : l’asile en question pour Paris et Londres


La generazione che cambia lavoro: i lavoratori statunitensi lasciano il lavoro in cifre da record
Financial Times, 24 novembre 2021

Milioni di lavoratori stanno utilizzando una nuova leva nel mercato del lavoro. Questo articolo è parte di una serie di pubblicazioni che analizzano come la pandemia di Covid-19 abbia trasformato il mercato del lavoro e cambiato il modo in cui milioni di persone pensano al lavoro

Quest'anno Lindsay Coleman ha lasciato due posti di lavori. Il primo posto di lavoro lo ha lasciato a gennaio. Si trovava nell'ufficio della società di software dove aveva lavorato per quasi sei anni, dopo essersi laureata. Aveva un buon rapporto con i suoi colleghi, ma sentiva che non poteva rifiutare un'offerta di lavoro più attraente. Ma a ottobre Coleman, di New York, si è resa conto che avrebbe preferito vendere appartamenti invece di software e, dopo aver ottenuto la sua licenza immobiliare, ha dato nuovamente le dimissioni per entrare nel Corcoran Group. "La vendita di software è una carriera molto redditizia, ma in fondo ho sempre saputo che non era ciò che amavo e non ho mai saputo se avrei fatto qualcosa al riguardo", racconta Coleman, di 29 anni, e aggiunge: "Ti rendi davvero conto se sei felice quando sei seduta da sola in un appartamento tutto il tempo a lavorare, ogni giorno, per l'intero giorno".

Coleman fa parte dell'ondata inedita di lavoratori statunitensi che hanno lasciato il lavoro nel 2021. Il dipartimento del lavoro ha riferito che 4.4 milioni di americani hanno lasciato il lavoro solo nel mese di settembre, battendo il record per il maggior numero di dimissioni presentate in un solo mese dall'inizio dell'indagine avviata nel 2001. Il record precedente è stato raggiunto ad agosto.

I lavoratori negli Stati Uniti sono molto richiesti, proprio quando le aziende si espandono per trarre vantaggio dalla ripresa economica dalla pandemia di coronavirus. Mentre alcuni lavoratori cercano di esercitare la loro nuova leva per ottenere dai loro datori di lavoro paga e benefit migliori attraverso un'azione organizzata, molti altri lavoratori stanno abbandonando i loro vecchi lavoretti per lavori migliori.

Anche le opportunità di lavoro sono aumentate. Gli economisti ritengono che la maggior parte dei dei lavoratori che si sono dimessi avessero probabilmente altri lavori disponibili prima di rinunciare al loro, dal momento che la partecipazione alla forza lavoro è rimasta stabile dal crollo del 2020, nonostante i tassi record di abbandono dei posti di lavoro. "Nel 2021 abbiamo assistito realmente ad un aumento del tasso di abbandono del lavoro, e anche all'aumento della domanda di lavoratori", ha affermato Nick Bunker, economista presso il sito di lavoro online Indeed. "Quindi questo racconta davvero la storia di molti lavoratori che colgono le opportunità nel mercato del lavoro".

È stata soprannominata "La Grande Rassegnazione". E' stata inizialmente una sorpresa per molti economisti che sostengono che in genere i lavoratori non sono disposti a modificare lo status quo anche quando sono infelici del loro lavoro. Ma la crisi provocata dal Covid-19 ha confuso le norme economiche e sociali, spingendo i lavoratori a rivalutare ciò che vogliono dalla loro vita lavorativa. Il risultato è stato che molti lavoratori che stavano per abbandonare il loro lavoro hanno deciso finalmente di stringere i denti.

“È la chiarezza provocata dal Covid'”, ha affermato Alexander Alonso, amministratore delegato della Society for Human Resource Management, che da sei mesi studia il fenomeno. Secondo Alonso, la maggior parte di coloro che abbandonano il lavoro nell'era della pandemia sono alla ricerca di una retribuzione migliore, di un equilibrio migliore tra lavoro e vita privata o di benefit migliori sul posto di lavoro. "Le persone non stanno combattendo il ritorno al lavoro".

I settori messi in difficoltà dalla pandemia hanno registrato il maggior numero di dimissioni, ha affermato Bunker, indicando il settore manifatturiero, del tempo libero e dell'ospitalità. L'avvocato Danit Sibovits, che risiede a New York, ha lasciato il posto di lavoro a causa dei benefit scarsi per spostarsi a lavorare a giugno in un'azienda di difesa assicurativa. L'azienda precedente non forniva ai lavoratori attrezzature base per il lavoro da casa, come il computer portatile o le risorse per il wellness aziendale durante i confinamenti dello scorso anno. “Ero immobile”, ha detto Sibovits, di 38 anni. “Prima del Covid stavo bene. Ho potuto affrontarlo. Ma poi non ho potuto».

Un altro avvocato di Houston è giunto alla stessa conclusione. Aparna Shewakramani, di 36 anni, esercitava la professione di avvocato da 10 anni, di recente era consigliere generale presso un'agenzia di assicurazioni. Non le è mai piaciuto molto il suo lavoro e la pandemia le ha dato l'opportunità di recitare senza copione in una serie Netflix chiamata Indian Matchmaking.

Shewakramani ha chiesto un periodo di aspettativa al lavoro per seguire altre opportunità, come scrivere un libro dopo che lo spettacolo ha fatto scalpore da un giorno all'altro, e non è più tornata al lavoro precedente. Si è dimessa ad aprile.

La necessità di avere una stabilità finanziaria maggiore ha spinto Jenna Coluccio, assistente medico di 27 anni, a lasciare il lavoro a giugno. Sapeva che l'unità di terapia intensiva del centro di Manhattan, in cui aveva lavorato per circa due anni, la stava sottopagando e non era il lavoro idoneo di lungo termine.

Nonostante avesse programmato di rimanere al lavoro per tre anni, lo stress causato dalla crisi del Covid l'ha spinta a cercare un nuovo lavoro presso l'ospedale preferito. Ha ricevuto un'offerta di lavoro poche settimane dopo e ha subito presentato le dimissioni.

“La gente continua a parlare di come questa sia una generazione che continua a cambiare lavoro”, racconta Coluccio. “Questo accade perché nessuno vuole essere vittima del bullismo o di essere sottovalutato. E sai una cosa? È assolutamente giusto. I nostri genitori ci hanno insegnato che dovremmo mantenere il lavoro, restarci, ma perché?"

Per leggere l'articolo originale: The switching generation: US workers quit jobs in record numbers

 

Analisi. La liberazione del primo ministro sudanese è solo un piccolo passo verso la soluzione della crisi
The Guardian, 22 novembre 2021

L'accordo per la liberazione del primo ministro sudanese in stato di detenzione, firmato da Hamdock e dal generale Abdel Fattah Al Burhan, che ha preso il potere nel colpo militare del 25 ottobre scorso, lascia il Sudan in una crisi continua.

Mentre l'accordo soddisfa alcune richieste urgenti avanzate dalla comunità internazionale e dai mediatori degli Stati Uniti e dell'ONU, garantendo almeno la liberazione di Hamdock e di altri detenuti politici, lascia irrisolte molte questioni cruciali per la transizione politica del paese.

Dalla cacciata del longevo governo autoritario di Omar Al Bashit nel 2019, il cuore dei problemi in Sudan è stato il ruolo ricoperto dalle forze militari e di sicurezza, responsabili dei crimini commessi durante il governo Bashir, e la questione di come costruire una soluzione generale politica inclusiva che tenga conto delle richieste dei movimenti ribelli del paese.

Anche se l'accordo ha fatto uscire dalla scena politica Bashir, questo ha falsificato molti problemi, lasciando l'esercito in una posizione dominante, non ultimo a capo del Consiglio Sovrano per la transizione del Paese.

Il motore importante dell'ampia crisi che si sta svolgendo nelle ultime settimane e negli ultimi mesi è stata la tabella di marcia per il periodo di transizione dopo Bashir, che avrebbe dovuto introdurre dei civili ai posti di comando del Consiglio sovrano, e le preoccupazioni nate nelle alte cerchie di militari che i loro lunghi interessi politici ed economici sarebbero stati compromessi.

Ma ciò che è peggio per le alte personalità militari, Burhan incluso, è la preoccupazione di poter essere ritenuti responsabili dell'uccisione di manifestanti avvenute nel 2019, alla fine del periodo di Bashir al potere, e di altri crimini commessi durante il periodo di Bashir al potere.

L'accordo raggiunto domenica sembra dare poche risposte a questi problemi. L'accordo ribadisce la scelta costituzionale e l'Accordo di Pace di Juba del 2020, firmato inizialmente con un numero (anche se non con tutti) di organizzazioni in guerra nel paese, ma lascia aperta una strada ancora non chiara per la transizione democratica.

Anche se Hamdock ha accettato un accordo che soddisfa, in un certo senso, i militari, con la creazione di un governo tecnico meno diviso e più conciliante, lascia molti sostenitori della democrazia, che vogliono che i militari si ritirino completamente dal campo politico, molto sospettosi nei confronti delle ambizioni future dei generali.

L'accordo resta un'impresa altamente rischiosa per tutte le parti della crisi in corso. Per i militari, l'accordo indica che la loro posizione forse non è poi così forte come vorrebbero far credere, non almeno di fronte alle continue proteste, persino quando ricorrono all'uso della forza bruta.

Da parte dei civili, l'accordo di Hamdock su un nuovo governo ad interim contiene il potenziale che rischia di logorare il campo di civili già diviso.

Il principale raggruppamento di civili che ha guidato le proteste contro Bashir e che ha firmato l'accordo sulla condivisione del potere con i militari nel 2019, ha respinto subito l'accordo raggiunto domenica, e le proteste contro l'accordo continuano in diverse città.

La fazione principale della coalizione delle Forze per la Libertà e il Cambiamento ha dichiarato in un comunicato: “Ribadiamo la nostra posizione chiara espressa in precedenza che non intendiamo negoziare, collaborare e legittimare il golpe”.

Il fatto che ci sia stata poca chiarezza e che tutte le parti stiano ancora combattendo a denti stretti per trarre vantaggio, sembra che i problemi del Sudan non siano finiti.

Per leggere l'articolo originale: Sudanese PM’s release is only small step in resolving crisis


Afghanistan: “La peggiore crisi sulla terra”
Le Monde, 21 – 22 novembre 2021

La povertà è peggiorata con il ritorno dei Talebani.

Ogni letto dell'unità pediatrica dell'ospedale Boost, a Lashkar Gah, capitale della provincia di Helmand, nel sud dell'Afghanistan, è occupato da due bambini.

È l'inizio di novembre, e le risorse, come ovunque in Afghanistan, sono limitate e l'afflusso di pazienti è senza precedenti. Fatima ha 20 anni, è madre di quattro figli, è seduta sul bordo di uno di questi letti, dove dorme la figlia debole di 3 mesi. Non ha ancora un nome. La giovane madre spiega il motivo: “Non diamo il nome ai nostri figli finché non siamo sicuri che sopravviveranno. E mia figlia non respira bene”. Ha seguito da vicino negli ultimi sette giorni la salute del suo neonato che, come milioni di bambini afgani, soffre di malnutrizione acuta. “Potrebbe prendere qualsiasi malattia”, spiega un medico dell'ospedale Boost, sostenuto dall'ONG francese Medici Senza Frontiere.

 Il quartiere in cui vive Fatima, nel sobborgo di Lashkar Gah, è ritornato alla calma dopo la fine degli scontri tra l'ex regime di Kabul e i nuovi padroni del Paese, i Talebani. Ma la vita non è più facile. “Non abbiamo niente da mangiare”, afferma Fatima. Suo marito è un lavoratore a giornata, è rimasto ferito in un incidente e non può più lavorare. La loro famiglia avrebbe potuto chiedere aiuto ai parenti in una situazione normale. Ma dalla caduta di Kabul del 15 agosto e dalla presa del potere dei Talebani, molti lavoratori non hanno ricevuto lo stipendio. Molti ex dipendenti pubblici (militari, impiegati del ministero, soprattutto donne) sono stati licenziati. I lavoratori autonomi sono stati costretti a cessare l'attività per mancanza di entrate. Fatima e suo marito non mangiano più carne né frutta. Si nutrono di patate e questo complica l'allattamento al seno di Fatima. Il suo caso non è il solo.

Secondo l'ultimo rapporto del Programma Alimentare Mondiale e dell'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Alimentazione e l'Agricoltura dell’8 novembre, più della metà della popolazione, 22.8 milioni di persone su una popolazione di 38 milioni di persone, sta conoscendo un'insicurezza alimentare acuta e quasi 9 milioni di persone rischiano la fame. Le Nazioni Unite hanno riferito ad ottobre che più di 3 milioni di bambini sotto i 5 anni stanno conoscendo una malnutrizione acuta. Il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia (Unicef) ha avvertito il mese prima che, senza cure urgenti, 1 milione di bambini rischia di morire di malnutrizione. “Come puoi immaginare la situazione è grave. Siamo assistendo alla peggiore crisi umanitaria sulla terra. Circa il 95% delle persone non ha cibo a sufficienza”, ha detto alla BBC, l’8 novembre, il direttore esecutivo del Programma Alimentare Mondiale, David Beasley.

Le Nazioni Unite hanno lanciato l'allarme a settembre su situazione precaria in Afghanistan, Paese largamente dipendente dagli aiuti internazionali.  “Gli afgani hanno bisogno di un'ancora di salvezza per affrontare quello che è forse il momento più grave”, ha affermato il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, nel discorso di apertura alla Conferenza sull'Afghanistan a Ginevra, del 13 settembre, nel quale ha invitato i paesi donatori a venire in aiuto dell'Afghanistan. È stato lanciato un appello umanitario per trovare 600 milioni di dollari (532 milioni di euro) per la fornitura di cibo o attrezzature entro la fine dell'anno. Di fronte alla mancanza di garanzie dei talebani, il governo americano continua a congelare i fondi della banca centrale dell'Afghanistan (9,5 miliardi di dollari), che potrebbero essere utilizzati per pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Lo stesso accade con il Fondo Monetario Internazionale, che blocca 400 milioni di dollari di aiuti. Il Boost Hospital ha oltre 1.000 dipendenti afgani e internazionali ed è l'unica struttura operante nella provincia di Helmand, oltre a un centro medico gestito dalla ONG italiana Emergency, che cura solo feriti di guerra. La maggior parte degli ospedali del Paese sta collassando per mancanza di denaro, di attrezzature e farmaci. Sul Boost Hospital si riversano i pazienti dalle province di Farah, Oruzgan, Nimroz e Kandahar. La fine dei combattimenti permette ai pazienti di mettersi in viaggio, che un tempo era troppo rischioso. Molti neonati ricoverati nel Boost Hospital non aumentano di peso a sufficienza. Amina è un’afgana di un villaggio del distretto di Marjah, situato a 25 chilometri da Lashkar Gah, è la mamma del bimbo più piccolo ricoverato in ospedale: “1 mese e 3 giorni”. È gravemente malnutrito e pesa solo 1.9 chili. Anche lui non ha un nome. “Nella città di Lashkar Gah, con 500.000 abitanti, quasi nessuno riceve più uno stipendio. Gli altri ospedali sono in una situazione molto preoccupante”, racconta il direttore del Boost Hospital, Fayzollah Muhammadi.

“La situazione non è mai stata così drammatica in Afghanistan. Se le cose non cambieranno riguardo agli aiuti bloccati, ci sarà un grande disastro. La povertà sta inghiottendo l'intero paese". A Kabul, ci sono pochissime auto in strada. Gli ingorghi del traffico sono quasi scomparsi. Molte persone stanno vendendo quanto hanno. I numerosi lustrascarpe e i lavoratori a giornata aspettano un'offerta di lavoro. Nella parte occidentale di Kabul, il 13 novembre, 20.500 famiglie bisognose hanno risposto all'appello del Programma Alimentare Mondiale, sostenuto da molte ONG locali, per fornire cibo alle loro famiglie.

Nella parte occidentale di Kabul, 20.500 famiglie bisognose hanno risposto, il 13 novembre, all’appello del Programma Alimentare Mondiale, sostenuto da molte ONG locali, che fornisce ai più poveri 3.500 Afghanis contanti, equivalenti a 33 euro. Nel freddo gelido del mattino presto, centinaia di uomini e donne sono in fila davanti alla palestra di Chahardahi per presentare le pratiche.

Sumaya si è svegliata prima del solito. Questa madre di 32 anni non si è posta il problema di prendere un taxi. Così Sumaya è andata nella palestra, mentre i suoi tre figli l'aspettavano a casa. Questa maestra, vestita con cura, la sua sciarpa ricamata abbinata al cappotto, si copre bene il viso in palestra per non essere riconosciuta. Il marito di Sumaya, che lavorava in un negozio, ha perso il lavoro. Non ha potuto riavere il suo lavoro di insegnante e non ha potuto dare lezioni individuali. "La gente non può permetterselo", racconta Sumaya. 

Questa famiglia non è in grado di pagare l'affitto di 5.000 afghani oramai da quattro mesi. "Abbiamo già finito tutti i nostri risparmi e abbiamo debiti per 20.000 afghani", racconta. A casa, hanno solo pane e farinacei. "Ceci, fagioli neri e a volte un po' di riso", racconta Sumaya, seduta nella modesta casa di fango nel distretto di Afshar in Afghanistan.

Afshar Silu, sede della minoranza sciita Hazara.

I suoi due figli, Shobayr e Zahir, di 11 e 13 anni, non vanno più a scuola a causa delle tasse scolastiche, costano 500 afgani al mese ciascuno. "A casa studiamo ancora con i libri di testo dello scorso anno", dice Zobayr. Sumaya si è dovuta indebitare con i suoi vicini per poter comprare il latte in polvere per sua figlia di un anno. I suoi parenti hanno già venduto alcuni dei loro averi, frigoriferi e tappeti. "Presto saremo costretti a fare lo stesso", racconta Sumaya.

Per leggere l'articolo originale: Afghanistan, « la pire crise sur terre »

 

Il Qatar accoglie con favore il rapporto dell'Ilo nonostante siano state ammesse lacune nella raccolta dei dati
Al Jazeera, 20 novembre 2021

Secondo il nuovo rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, l'analisi dei decessi di lavoratori migranti in Qatar ha mostrato lacune nella raccolta dei dati del Paese e differenze nel modo in cui sono catalogati gli incidenti sul lavoro.

Venerdì l'Ilo ha dichiarato di aver collaborato con le principali istituzioni qatariote per elaborare l'analisi approfondita degli infortuni sul lavoro e dei decessi nel 2020, ma ha individuato carenze nel modo in cui sono stati identificati gli incidenti. "Di conseguenza, non è ancora possibile presentare una cifra categorica sul numero di infortuni mortali sul lavoro nel paese", e l'Ilo chiede di apportare miglioramenti nella raccolta dati e nel modo in cui sono condotte le inchieste.

 Secondo il rapporto dell'Ilo, dal titolo “One is Too Many”, lo scorso anno sono morti in Qatar almeno 50 lavoratori, sono stati più di 500 i feriti gravi e circa 37.600 feriti da lievi a moderati. Secondo l'Ilo, la maggior parte dei lavoratori che hanno subito infortuni sul lavoro proviene dal Bangladesh, dall'India e dal Nepal. L'Ilo ha aggiunto che "Le cadute da luoghi sopraelevati e gli incidenti stradali sono state le principali cause di lesioni gravi, seguite dalla caduta di oggetti sui cantieri".

Molto lavoro da fare

Le condizioni di lavoro dei lavoratori migranti in Qatar sono state sotto i riflettori da quando sono stati assegnati nel 2010 allo stato del Golfo i Mondiali di calcio del 2022. Il ministero del lavoro del Qatar ha accolto, nella dichiarazione successiva rilasciata venerdì, con favore il rapporto dell'Ilo e ha affermato che sta per riesaminare le raccomandazioni. Il ministero ha aggiunto nella dichiarazione che "Nessun altro paese è arrivato così lontano sulla riforma del lavoro in così poco tempo, ma riconosciamo che c'è molto lavoro da fare", e ha osservato che il Qatar continuerà a lavorare con l'Ilo per garantire che i cambiamenti “siano realizzati in modo efficace”.

“Come il Qatar ha continuamente affermato e come conferma il rapporto dell'Ilo, le cifre riportate dai media sui decessi dei lavoratori migranti sono state estremamente fuorvianti. Il governo è stato trasparente sulla salute della nostra popolazione straniera e, in realtà, i livelli di mortalità in Qatar corrispondono ai dati demografici più ampi a livello globale. Tuttavia, il miglioramento della salute e del benessere dei lavoratori stranieri rimane una priorità assoluta", prosegue la dichiarazione del ministero del Lavoro.

“Infatti, il rapporto segnala un “calo significativo del tasso di infortuni sul lavoro” nel tempo, dimostrando la forza della legge di riforma del lavoro e il successo dei nostri meccanismi di attuazione. Il Qatar è, inoltre, orgoglioso di notare che c'è stato un "calo drastico" dei disturbi causati dallo stress da calore, grazie in gran parte alla legge in materia di stress da calore adottata nel maggio 2021", ha aggiunto il ministero.

L'organismo di vigilanza londinese Amnesty International ad agosto ha accusato le autorità del Qatar di non aver indagato sui decessi dei lavoratori migranti, "nonostante l'evidenza di legami tra decessi prematuri e condizioni di lavoro non sicure". Sempre Amnesty International ha affermato che “il Qatar rilascia regolarmente certificati di morte dei lavoratori migranti senza condurre indagini adeguate, attribuendo, invece, i decessi a “cause naturali” o a insufficienza cardiaca vagamente definita”.

Il servizio di comunicazione del governo del Qatar all'epoca ha bocciato i risultati di Amnesty, ritenendo in una dichiarazione che "le statistiche sugli infortuni e sui decessi nel paese fossero in linea con le migliori pratiche internazionali tanto da fissare nuovi standard per la regione".

L'Ilo ha chiesto nel rapporto che sia condotta una “revisione dell'approccio adottato nelle indagini sui decessi di giovani lavoratori apparentemente sani per “cause naturali”, per permettere di stabilire se queste siano effettivamente legate al lavoro e garantire di individuare la causa in modo più accurato". Questa revisione garantirà ai lavoratori e alle loro famiglie il dovuto risarcimento in caso di infortuni sul lavoro. L'Organizzazione ha, inoltre, chiesto l'istituzione di una piattaforma nazionale integrata che compili dati tempestivi e affidabili sugli infortuni sul lavoro.

"La trasparenza mostrata nella revisione dei processi per la raccolta e l'analisi dei dati ci ha permesso di presentare una serie di raccomandazioni concrete che possono fungere da road map per l'azione", ha affermato il responsabile dell'Ufficio progetti dell'ILO in Qatar, Max Tuñón. “Dobbiamo muoverci con urgenza, perché dietro ogni statistica c'è un lavoratore e la sua famiglia”.

Il ministero del Lavoro del Qatar ha aggiunto che "continuerà a lavorare in modo costruttivo con una serie di esperti e professionisti del lavoro, tra cui l'Ilo, i sindacati e le Ong internazionali, per rafforzare i progressi già compiuti". "La riforma del lavoro è un compito complesso e il Qatar crede che le soluzioni vadano ricercate nel dialogo e nell'impegno", conclude la dichiarazione del ministero.

Per leggere l'articolo originale: Qatar welcomes ILO report despite admitted data gaps