Tra meno di due mesi negli Stati Uniti si vota, e un paese già lacerato prima del coronavirus adesso lo è più che mai. Mondo del lavoro, sanità, diritti civili di afroamericani e ispanici: non c’è tema che non mostri tensione. E questi temi incideranno nella campagna elettorale che oppone il democratico Joe Biden a Donald Trump. Il presidente in carica mira al voto dell’America razzista e impaurita, e prova a fomentarla e rassicurarla allo stesso tempo col motto "legge e ordine", intanto che indica le piazze della contestazione additandole come criminali (una vecchia tattica). Viene da chiedersi se le minoranze etniche, con le sofferenze dei loro lavoratori esposti al virus o licenziati e non coperti dal sistema sanitario, con le loro comunità aggredite dalle forze di polizia o spezzate da provvedimenti xenofobi, daranno un contributo decisivo a queste elezioni. Potrebbe accadere. Potrebbero essere determinanti. Altrettanto si può dire dei lavoratori bianchi della working class. La gente dal sogno infranto cantata per decenni da Bruce Springsteen. Anche loro incideranno, se solo lo vorranno.

Un sistema disfunzionale
Ma gli Stati Uniti hanno un problema. Come sintetizza efficacemente un’analisi della Fondazione Ebert curata da Knut Panknin, sono un sistema provato da “enormi malattie sociali preesistenti” che la pandemia ha aggravato. Un sistema “disfunzionale”. Lo studio della Fondazione vicina alla Spd tedesca ci ricorda che il divario sociale negli Usa è aumentato: il tasso di povertà è di poco inferiore al 12 per cento, “quasi un lavoratore su due è a basso salario, con un reddito medio annuo di 18 mila dollari. È anche aumentato il numero di persone prive di un’assicurazione sanitaria. Prima del Covid-19 erano più di 27 milioni. Mentre l'amministrazione Trump tuttora combatte l’Affordable Care Act (Obamacare) in tribunale e ne limita l’accesso”. 

La divisione sociale è divisione etnica: “con un livello di istruzione ed esperienza lavorativa analogo - prosegue la Ebert -, il 54 per cento dei lavoratori afroamericani e il 63 per cento di quelli di origine latinoamericana guadagnano salari bassi, rispetto al solo 37 per cento dei bianchi. Anche i tassi di reddito e povertà variano notevolmente tra i gruppi di popolazione: gli afroamericani hanno un reddito medio leggermente superiore alla metà di quello dei bianchi, e il loro tasso di povertà è il doppio, superando il 20 per cento”.

Lo scorso agosto le richieste di sussidio di disoccupazione hanno raggiunto quota 1,1 milioni. Un dato che gli analisti non prevedevano. Nelle prime dieci settimane di pandemia più di quaranta milioni di lavoratori hanno chiesto l’indennità di disoccupazione. I pacchetti di aiuti stanziati in primavera hanno in realtà beneficato soprattutto le grandi aziende. Un nuovo pacchetto di ispirazione Democratica da ben tre trilioni di dollari, l’Heroes Act, stagna al Congresso da settimane, bloccato dai repubblicani. Secondo la Ebert la disoccupazione potrebbe arrivare alla soglia mai vista del 30 per cento. Le stime sul Pil del secondo trimestre, su base annua, sono raggelanti: -31,7 per cento.

Il “sacrificio” dei lavoratori afroamericani e ispanici
Un nuovo rapporto “endogeno”, curato dall’Economic Policy Institute (Epi), conferma lo sguardo tedesco: nel momento in cui il virus è esploso, il sistema ha mostrato tutta la sua debolezza: “scarsa protezione del lavoro, tassi storicamente bassi di densità sindacale, estrema disuguaglianza economica”. I lavoratori, in particolare quelli a basso salario - donne, afroamericani, latini - “hanno in gran parte sostenuto i costi della pandemia. Pur fornendo i servizi essenziali su cui facciamo affidamento - argomenta l’Epi - sono stati costretti a lavorare senza protezioni, e non hanno accesso a congedi di malattia retribuiti”. 

Molti di loro, poi, hanno subìto la perdita del posto, impiegati com’erano in settori colpiti duramente dalla crisi (ristoranti e bar, alberghi, servizi alla persona). Il calcolo in termini percentuali è impressionante: la disoccupazione tra i lavoratori bianchi non ispanici è salita al 12,8 per cento, ma tra gli afroamericani al 16,7 per cento e tra gli ispanici al 18,5 per cento. “I tassi di disoccupazione - ricorda ancora l’Epi - hanno raggiunto un picco incredibilmente alto per le donne: 17,3 per cento per le donne nere non ispaniche, 20,5 per cento per le donne ispaniche”. Solo un lavoratore nero su cinque e solo un ispanico su sei è stato messo in condizioni di telelavorare da casa. Sul fronte delle cure sanitarie la ripercussione è inevitabile: un lavoratore nero ha il 60 per cento di probabilità in più di non essere assicurato rispetto a un lavoratore bianco.

La guerra di Trump ai sindacati 
Il quadriennio Trump ha sfiancato l’America che lavora. La sua amministrazione “rifiuta di aumentare il salario minimo nazionale di 7,25 dollari” - puntualizza il rapporto Ebert - e ha condotto una guerra senza quartiere ai dipendenti federali pubblici e alle loro rappresentanze sindacali. Eppure una delle lezioni principali che il paese dovrebbe trarre da questi mesi di pandemia è che la presenza o l’assenza di un sindacato fanno una differenza non solo notevole, ma in questo caso vitale.

“Là dove i lavoratori sono stati in grado di agire collettivamente e attraverso il sindacato - leggiamo nel rapporto Epi -, sono stati anche in grado di garantire misure di sicurezza rafforzate, premi aggiuntivi e periodi di malattia retribuiti. I lavoratori sindacalizzati hanno avuto voce in capitolo nel modo in cui i loro datori di lavoro hanno gestito la pandemia, anche negoziando i termini dei licenziamenti o gli accordi per salvare i posti di lavoro”. Inoltre, ricorda sempre il think tank nordamericano, sindacati e contrattazione collettiva “contribuiscono a ridurre il divario salariale tra i bianchi e i neri”.

Formare un sindacato, però, in America è difficilissimo. Al Congresso è ancora bloccata una riforma, il Protecting the Right to Organize (Pro) Act, che assicura maggiori protezioni ai lavoratori, difendendone il diritto a organizzarsi e a contrattare collettivamente, e vara sanzioni significative contro le pratiche antisindacali delle aziende. La normativa è stata approvata lo scorso febbraio dalla Camera dei rappresentanti, ma non dal Senato. Ora la palla passerà al prossimo Congresso, a partire dal gennaio 2021. 

Ricordiamo - sulla scorta del rapporto Epi - che oggi negli Stati Uniti più di un lavoratore su nove (16,4 milioni) è coperto da un contratto sindacale. Quasi due terzi (65,2 per cento) sono donne e/o afroamericani o ispanici. I lavoratori neri sono il gruppo etnico più rappresentato: il 13,5 per cento dei lavoratori neri è coperto da un contratto, contro il 12,2 per cento dei lavoratori bianchi e il 10,2 per cento dei lavoratori ispanici. Più della metà (54,7 per cento) dei lavoratori coperti da un contratto sindacale ha un diploma di laurea o una formazione superiore. Le quote più alte di lavoratori coperti da un contratto sindacale sono nel settore pubblico (37,8 per cento) e nel settore privato: nei trasporti e nei servizi pubblici (19,4 per cento), nelle costruzioni (14,1 per cento), nell'informazione (10,4 per cento), nell'industria manifatturiera (9,8 per cento) e nei servizi educativi e sanitari (9,4 per cento). I lavoratori che beneficiano di un contratto collettivo negoziato dal sindacato non sono necessariamente iscritti alle unions, e non sono obbligati a pagare una quota. Però il sindacato è legalmente obbligato a rappresentare i dipendenti e a negoziare per loro.

La campagna elettorale più dura di sempre
Visto il quadro della situazione, viene da chiedersi come tutto ciò stia entrando nel cuore della campagna elettorale. Se diamo una scorsa al programma di Biden, la sua natura, come dire, “sindacale”, appare abbastanza evidente. Sembra insomma chiaro che le questioni elencate sopra siano al centro del discorso politico aperto dal candidato dei democratici alla presidenza degli Stati Uniti. 

Ce ne dà conferma Martino Mazzonis, giornalista e analista esperto di Stati Uniti: “due cose hanno mobilitato le persone negli Usa in questi anni. I grandi temi etici, dalla salute riproduttiva al matrimonio tra persone dello stesso sesso, dal Mee too alla Marcia delle donne. L'altro grande aspetto è invece la battaglia per il salario minimo di 15 dollari, per la parità salariale, per la maternity leave (il congedo di maternità, ndr). Tutta una serie di diritti che in America non sono scontati, soprattutto per i millennials che non lavorano in aziende sindacalizzate dove, grazie a buone relazioni industriali e a uno spirito concertativo, le unions ottengono garanzie e contratti molto buoni. Ma il mondo del lavoro americano è cambiato, queste aziende sono sempre di meno”.

Per Mazzonis “l'operaio della Boeing, con i suoi diritti e le sue tutele, è sempre più una minoranza”, mentre un sindacato come la Seiu (nel settore dei servizi) “è stato molto dinamico negli ultimi anni, portando avanti battaglie per allargare la sfera dei diritti universali del lavoro, un tema molto a cuore delle minoranze, ossia di fasce sia medio alte e precarie di giovani, sia di lavoro nei servizi a bassa qualifica (quello che organizza la Seiu). Persone che chiedono diritti garantiti per tutti a prescindere dal contratto di lavoro”.

Questi temi sono entrati con prepotenza nel dibattito della sinistra americana e anche nel programma elettorale di Biden. Ma quando il candidato democratico utilizza iterativamente la formula Build back better, spiega ancora Mazzonis (che sta seguendo la campagna elettorale 2020 per il portale Treccani) “si rivolge anche alla working class tradizionale a maggioranza bianca, a tutti quegli operai che hanno perso il lavoro oppure sono stati ‘traslocati’ nei servizi. Da un lato c’è la promessa di combattere la crisi occupazionale scatenata dalla pandemia, dall’altro c’è l’impegno di Biden a costruire non posti di lavoro purché siano, ma lavoro di qualità e tutelato”.

Dall’altra parte c’è Trump, che ha tratto vantaggio da più di dodici anni di crescita, iniziati nell’era Obama. A prescindere dalle sue politiche, l’occupazione è cresciuta. Ma tutto questo come sappiamo è finito col coronavirus. Secondo Mazzonis “la guerra delle tariffe e le dispute di Trump con la Cina hanno però colpito alcuni segmenti del mondo del lavoro a lui un tempo vicini. Alcuni Stati agricoli - tipici elettori repubblicani - i farmers del Midwest, alcuni settori del mondo del lavoro nell’Ohio e nel Wisconsin non sono stati favoriti da Trump. Altri delusi sono senz’altro i lavoratori dell’industria del carbone, nel West Virginia, lo Stato carbonifero per eccellenza, e soprattutto in Pennsylvania, che nel 2016 a sorpresa aveva scelto Trump. Il presidente aveva promesso un rilancio del carbone che, per fortuna, non c’è stato. Ora nelle urne potrebbe essere punito”. 

La rabbia di un popolo
In conclusione torniamo alla domanda iniziale. Quanto incideranno le minoranze etniche nel voto di novembre? Quelli che si ammalano di coronavirus cinque volte più degli altri e ne muoiono per il triplo? Tutti coloro che, dopo l’omicidio di George Floyd o i proiettili nella schiena di Jacob Blake, sono scesi in piazza gridando che le vite dei neri contano? Conteranno anche nelle urne?

“Prima - argomenta sempre Mazzonis - parliamo un momento degli ispanici. Nel 2018, alle elezioni di metà mandato, gli ispanici hanno votato con percentuali simili a quelle di un’elezione presidenziale. È stato qualcosa di incredibile. Di solito al midterm vota pochissima gente. Se questo si dovesse ripetere a novembre, se gli ispanici, che hanno alti tassi di astensione, andassero a votare con una percentuale aumentata del 15-20 per cento, i democratici vincerebbero le elezioni. Ma nel 2018 furono mobilitati dalla retorica anti-immigrati di Trump, dal Muro. Staremo a vedere se si ripeteranno”.

Per gli afroamericani vale un discorso analogo: “Biden e Kamala Harris per aspetti diversi rappresentano una buona risposta, anche se moderata, alla grande mobilitazione di questi mesi, al Black lives matter. Biden - spiega Mazzonis - gode del sostegno della comunità nera. Ma, come indica un articolo recente del New York Times, in alcuni Stati la chiave saranno i maschi neri, che votano molto meno delle donne. In Michigan e Wisconsin, Stati persi dai democratici per poche migliaia di voti, nel 2016 l’affluenza dei maschi afroamericani alle urne crollò del 10-15 per cento, e questo fece la differenza”. 

Cruciale il voto per posta
Sarà una campagna elettorale anomala, proprio a causa delle violenze sui neri e del Covid-19. Sul piano della diffusione dell’epidemia, non sappiamo come si arriverà al 3 novembre. “Per questo il voto postale sarà cruciale - precisa Mazzonis -, e i democratici faranno di tutto per impedire a Trump di boicottarlo. I repubblicani, dal canto loro, continueranno a mettere in campo ogni forma di disincentivo possibile al voto afroamericano, a livello nazionale e non solo locale. Trump ha già annunciato l’invio ai seggi delle forze di polizia e dell’esercito, formalmente per controllare le frodi. Ma è chiaro che un maschio nero di trent’anni, con quello che sta accadendo tra la sua comunità e la polizia, al seggio non ci va se ci sono i poliziotti. Se poi aggiungiamo il fattore ‘virus’, si capisce che il voto postale e più in generale l’organizzazione della partecipazione al voto, usando anche strumenti come il voto in anticipo, saranno fondamentali per i democratici”.

Quello che pare assodato è che il partito di Biden sta facendo e farà di tutto per garantire un’ampia affluenza alle urne delle minoranze etniche, probabilmente una delle chiavi per strappare a Trump la presidenza. Più gente voterà, più sarà dura la conferma per l’uomo che oggi occupa la Casa bianca.